Ogni volta che i francesi alzano la voce contro l’Italia su temi migratori, ho una reazione pavloviana. Nella mia testa parte la canzone Bartali di Paolo Conte che è diventata universale. Quella in cui canta
Oh, quanta strada nei miei sandali
Quanta ne avrà fatta Bartali
Quel naso triste come una salita
Quegli occhi allegri da italiano in gitaE i francesi ci rispettano
Che le balle ancora gli girano
E tu mi fai, dobbiamo andare al cinema
E al cinema vacci tuTra i francesi che si incazzano e i giornali che svolazzano c’è un po’ di vento, abbaia la campagna e c’è una luna in fondo al blu
Anche se non c’entra nulla con i temi drammatici di cui ci occupiamo, non posso controllarmi per via della mia smodata passione per Paolo Conte e per la perfida soddisfazione che provo davanti ai francesi che cercano, invano, di respingere i migranti provenienti dall’Italia. In teoria, hanno ragione: l’Italia non sa gestire i flussi migratori. In pratica no, perché è impossibile limitare la libertà di movimento né frenare il flusso consistente di tutti quelli che non si fermano in Italia perché sanno che qui finiscono in un limbo eterno. Infatti questa settimana voglio raccontarvi la storia di una parte della famiglia Hamasi, evacuata in Italia dopo il tragico ritiro dell’alleanza atlantica dall’Afghanistan. Sami Hamasi era l’allenatrice della nazionale femminile di football afghana. Arrivata in un centro di accoglienza milanese, ha capito subito che sarebbe stata parcheggiata a lungo e lei aveva fretta. Fretta di vivere, di inserirsi e soprattutto di tornare in campo. E così ha lasciato il nostro Paese per andare ad Amburgo, città molto più “refugees friendly”, dove è stata aiutata a integrarsi velocemente. Oggi vive in un distretto di Brunswick, nella Bassa Sassonia, dove sta giocando in una squadra locale,Vfl Bienrode.
Peccato che lei abbia lasciato la sua famiglia in Brianza: 25 persone che invece devono vedersela con la prefettura di Monza e Brianza che ha deciso di trasferire una parte della famiglia in un piccolo comune nella provincia di Salerno. La cooperativa che l’ha accolta li ha informati che, avendo ottenuto lo status di rifugiati, devono entrare in un progetto Sai, il sistema accoglienza e integrazione. Peccato che i suoi zii abbiano sei figli, in maggioranza minorenni, che stanno frequentando la scuola. Il più grande, Masood, ha 19 anni e sta per prendere la licenzia media.
Davanti al nostro rifiuto di trasferirci, ci hanno detto che verremo cacciati e finiremo per strada. E che i miei fratelli e sorelle minori verranno messi in una comunità per minori, mi ha raccontato Masood al telefono mentre si sentivano in sottofondo i singhiozzi della madre che non parla bene l’italiano ma continuava a ripetere questo drammatico mantra: disperata- medicine-depressione-paura
Una vicenda surreale oltre che paradossale: l’emergenza minori stranieri non accompagnati in Lombardia – dove non si trovano più posti per inserirli perché il sistema di accoglienza è al collasso per il numero troppo alto di richieste – è noto a tutti. Oltre ad essere illecito togliere i minori a una famiglia, dove li porteranno? Spero si tratti solo di una minaccia e chi l’ha fatta si renda conto del trauma di una famiglia (che in Lombardia studia, lavora e paga le tasse fra l’altro) già devastata dalle minacce ricevute in Afghanistan e dallo sradicamento involontario dopo l’indelebile ferragosto del 2021.
Fra le storture del sistema di accoglienza, c’è anche questa viltà. Il Servizio Centrale Sai, istituito dal Ministero dell’Interno Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, si basa sull’adesione volontaria dei comuni. E alla fine di marzo risultavano 934 progetti attivi (56 in Lombardia) in 1.800 comuni per 43.923 persone. E se in un comune non c’è posto, non esiste un progetto per rifugiati (o la cooperativa che ha l’appalto della prefettura ne ha preso un altro in un luogo dove i costi sono più sostenibili) si trasferiscono le persone come pacchi postali, sempre più spesso nel Sud d’Italia. Interrompendo improvvisamente e brutalmente il percorso di integrazione avviata. Vale per tutti, ma soprattutto per gli afghani che hanno nuclei familiari molto numerosi, sono difficili da collocare e pesano maggiormente sulle finanze dei comuni.
Quegli stessi afghani per i quali abbiamo pianto lacrime di coccodrillo quando sono stati presi in ostaggio dai talebani con la complicità dell’occidente che doveva difenderli. Lacrime di coccodrillo che poi abbiamo pianto per gli ucraini fuggiti dopo l’invasione russa e poi per le vittime del naufragio di Cutro e così via perché nella permaemergenza si fa zapping televisivo da un dramma all’altro
La famiglia Hamasi rischia di venire espulsa dal sistema di accoglienza il 22 maggio. E ci sono sette minori ai quali non verrà permesso di concludere i cicli scolastici di cui si parla tanto quando si deve ipotizzare un qualsiasi provvedimento ius qualcosa. Perciò quando sento i francesi criticare di nuovo l’Italia sull’incapacità di gestire i flussi (e ancora di più l’integrazione che resta sempre più spesso un’aspirazione o uno slogan), mi viene in mente la bellissima canzone di Paolo Conte, Bartali, ma poi penso seriamente che dovremmo cercare di convincere tutti i cittadini stranieri ad andarsene dall’Italia. In Francia, in Germania, in Svizzera, dove hanno sistemi più rigidi ma offrono più chance di farcela. Insomma una follia.