Clarisse è accanto a un uomo che ha l’eta di suo padre, si chiama Patrick, gli chiede, se vengono, di abbracciarla stretta. Se deve morire, è meglio morire nelle braccia di qualcuno

Si nasce e si muore soli, ma le storie delle vittime di un attentato, di una catastrofe naturale, di un naufragio, diventano le nostre storie. Le loro vite spezzate ci riguardano. Ci identifichiamo, talvolta ci disperiamo perché non riusciamo ad accettare la loro tragica sorte. Nel potente libro V13 di Emmanuel Carrère sugli attentati a Parigi del 13 novembre 2015 commessi dai jihadisti che hanno fatto una strage in nome dello Stato Islamico, si resta basiti davanti alle storie di tanti giovani che volontariamente o involontariamente hanno coperto e salvato altri corpi rimasti sotto di loro, durante la carneficina del black friday europeo.

Cosa succede invece ai sopravvissuti dei naufragi? Sappiamo poco di loro perché poi, quasi sempre, spariscono, vanno altrove a cercare di dimenticare. O meglio a imparare a convivere con un insopportabile peso sul cuore.

La premier, arrivata a Bruxelles per partecipare al Consiglio europeo oggi e domani, ha già dichiarato: «Sui migranti mi aspetto passi in avanti», anche se sarebbe più giusto scrivere passi indietro. Alla vigilia del viaggio, a Montecitorio ha insistito sul numero dei migranti salvati dal Governo, oltre 36mila, e ha parlato del suo piano Mattei per investire in Africa e aiutarli a casa loro. Ha spiegato perché abolire (di nuovo) la protezione speciale e puntare (di nuovo) sul piano dei rimpatri e sul decreto flussi (di nuovo). Un refrain già sentito e risentito ma ascoltatelo e giudicate voi.

 

Le storie dei sommersi e salvati 

Apparentemente, le storie dei superstiti dei naufragi sembrano assomigliarsi. Le dinamiche del rovesciamento di un barcone o di un gommone che si spezza o imbarca acqua; il dramma di chi è obbligato a restare nella stiva, senza acqua e senza ossigeno. E muore soffocato o per le ustioni. E poi i lutti di figli, parenti, amici persi fra le onde. Ma non è così. Pensiamo a quanto è successo durante il naufragio di Lampedusa, il 3 ottobre del 2013, in cui sono morte 368 persone. Solomon Ghebrihiwet, eritreo, è sopravvissuto grazie a quello che chiama “my father”, mio padre. Ossia Vito Fiorino, pescatore per passione, che quando lo vide, nudo sulla barca rovesciata, si sfilò i pantaloni per darglieli. Solomon torna ogni anno a Lampedusa per portare dei fiori sulle tombe dei suoi amici. Ora vive in Svezia, come la maggior parte dei sommersi e salvati durante il naufragio avvenuto a mezzo miglio dalle coste.

Quando siamo saliti sulla barca, una mia amica che aveva il terrore del mare mi ha consegnato il suo bimbo. Durante il viaggio ho tenuto la testa del piccolo sulle ginocchia. Le avevo promesso che non l’avrei mai lasciato andare e invece – quando la barca si è rovesciata – l’ho perso. Come ho perso i miei migliori amici. Penso sempre a loro con immensa tristezza. Siamo scappati dall’Eritrea per avere una vita migliore e invece oggi sento sempre l’eco delle loro voci che pregano e urlano per il terrore di morire. Ringrazio Dio di avermi risparmiato, ma se potessi tornare indietro non partirei più. Il prezzo che abbiamo pagato per essere liberi è stato troppo alto

Le donne, le migranti che sono passate dalla Libia, hanno subito sevizie o sono sopravvissute a un naufragio, hanno due sentimenti che le accomuna: la gratitudine per essere vive, il senso di colpa verso chi non ce l’ha fatta. E anche una domanda in testa a cui non riescono dare una risposta: i loro compagni di viaggio e di sventura potevano essere salvati? Lo stesso interrogativo che si sono posti i superstiti del naufragio avvenuto al largo di Steccato di Cutro (Crotone) in cui sono morte 89 persone: afghani, pakistani che avrebbero dovuto arrivare in Europa attraverso i corridoi umanitari e invece sono saliti su una nave, partita da Izmir, in Turchia. Davanti al naufragio di Crotone, sono tanti, quelli che ora pensano a cosa è successo a loro, quando in mezzo alle onde urlavano “Help, help”:  aiuto, aiuto.

Il Mediterraneo centrale è la rotta più letale del mondo: dal 2014 oltre 25mila vittime, più di 1400 solo quelle del 2022. Dopo il naufragio avvenuto a Cutro, è riemerso il tema cruciale su come individuare e combattere i trafficanti sul globo terracqueo, ma Antonio Nicastro, sostituto procuratore a Catania e per diversi anni coordinatore del Gicic – il gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della procura di Siracusa – ci riporta alla realtà che si ostina a ostacolare la demagogia: «Sappiamo chi sono i trafficanti, grazie alle intercettazioni. Sappiamo dove sono e come operano, ma non possiamo andare a prenderli né ottenere la loro estradizione perché non ci sono accordi con i Paesi dove dirigono il traffico o, se ci sono, non vengono rispettati», mi ha spiegato. «Perciò, quello che possiamo fare concretamente, è focalizzarci su quello che potremmo chiamare il comitato d’accoglienza: i membri di organizzazioni criminali radicati sul nostro territorio che aiutano i migranti a raggiungere le loro mete in Europa o, peggio, vanno a prendere nei centri di accoglienza le donne nigeriane destinate alla tratta»

 

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