La generosità dei mediatori culturali necessaria ad aiutare i profughi afghani. Ci hanno detto che entro la fine dell’anno mezzo milione di afghani scapperanno dal fanatismo talebano. Ci hanno detto (al contrario) che non ci sarà nessuna ulteriore emergenza lungo la rotta balcanica perché ci vorranno mesi, anni, prima che tutti quelli che non ce l’hanno fatta a salire sugli aerei riescano ad arrivare a bussare alle porte dell’Europa. Ci hanno detto che non bisogna dimenticare i 300mila afghani già entrati in Europa che non hanno ancora ottenuto la protezione internazionale, mentre l’Unione Europea, le Nazioni Unite ci stanno dicendo a lettere cubitali che il 2021 non sarà la ripetizione del 2015, in cui un milione di siriani sono arrivati a piedi e sui gommoni, perché la nostra fortezza va difesa e che gli altri li aiuteremo a casa loro (sic).
Nel frattempo ci stiamo dimenticando fra le altre cose del dramma nel dramma: gli esuli accolti in Italia dopo il primo regime talebano che, diventati cittadini italiani e spesso mediatori culturali, ora da una parte sono terrorizzati per quello che può accadere alle loro famiglie rimaste in Afghanistan e dall’altra rivivono la propria tragedia attraverso gli sguardi e le parole dei nuovi esuli arrivati in Italia. Famiglie numerosissime e donne giovani che in questi anni, al netto del fallimento della missione internazionale, hanno potuto andare a scuola, diventare insegnanti, attiviste, musiciste, giornaliste, politiche, atlete. Ora che si sta mettendo in moto la macchina dell’accoglienza per 5000 afghani arrivati in Italia, i mediatori culturali sono professionisti preziosi e imprescindibili per creare il ponte necessario con i nuovi rifugiati di cui ci dovremo fare carico finché non saranno autonomi e in grado di ricostruire una diversa identità. Se già alcune storie sono state raccontate, o meglio accennate, è per merito loro: i mediatori culturali senza i quali non possiamo aiutare quei profughi afghani che non parlano inglese. Dawood Yousefi, per esempio. Ha recitato nel film che parla della minoranza hazara Sembra mio figlio di Costanza Quatriglio. L’ho chiamato nei giorni in cui a Fiumicino continuavano ad arrivare i voli da Kabul, dove per le misteriose coincidenze del destino ha partecipato all’accoglienza di una parte della famiglia del poeta e giornalista rifugiato Basir Ahang con cui ha recitato nel film.
Dawood Yousefi collabora alla realizzazione dei corridoi umanitari, è mediatore interculturale, educatore attore e fotografo. Ed è stato volontario con la comunità di Sant’Egidio a Lesbo, dove ha aiutato come ha potuto anche gli afghani presenti di cui dice: «A causa delle richieste di asilo negate ai profughi, ci sono bambini che sono nati nel campo per migranti e costretti a vivere in condizioni infernali nel cuore dell’Europa».
E non è stato facile per lui che a Lesbo ha già visto le conseguenze dell’avanzata talebana in Grecia, dove erano già arrivati diversi afghani in fuga, ritrovarsi a Fiumicino ad accogliere altri profughi, in fuga dal talebani come lo è stato lui in passato. «Ho rivissuto la mia fuga, l’esilio, la paura», mi ha spiegato una sera, stremato, dopo aver visto arrivare tantissimi connazionali a Fiumicino.
La vita è un sogno, la vita è bella. Si vive e si muore una volta sola. E per questo motivo decine di migliaia di afghani hanno affrontato il rischio di morire per partire. Per non morire tutti i giorni, con i talebani
È furioso, Dawood, per il ritiro della missione internazionale «che ha illuso il mio popolo», ripete più volte. E purtroppo sa bene cosa succederà alla minoranza hazara, da sempre perseguitata in Afghanistan. Ma sa anche quanto sarà importante per lui, per quelli come lui, continuare a rendersi utili per creare un ponte a migliaia di profughi arrivati in Italia e sono al sicuro ma non tutti sognavano di venire in Europa e sono stati sradicati. Man mano che la macchina dell’accoglienza viene organizzata, speriamo diffusa e non concentrata in grandi centri dove parcheggiare per anni esistenze in un limbo, vi racconteremo le loro storie. Secondo l’osservatorio Radar di Swg, quasi la metà degli italiani teme questa nuova emergenza umanitaria. Per questo motivo oggi volevo attirare la vostra attenzione sulla generosità dei mediatori culturali senza i quali non possiamo aiutare i profughi afghani né soprattutto capirli mentre si avviano verso la loro nuova vita, aggrappata all’Italia.