Buon pomeriggio a tutti, dato il mood catastrofico della permaemergenzasovranista sulle politiche migratorie, non credo sia il caso di annoiarvi sui tecnicismi e sui motivi per cui molti dei risibili provvedimenti resteranno lettera morta. A cominciare dalla richiesta di quasi 5000 euro ai richiedenti asilo che vogliano evitare di finire nei centri di permanenza e rimpatrio grazie a una fideussione bancaria (sob). Qui potete approfondire perché è inaccettabile oltre che incostituzionale la norma, già tentata nell’Ungheria di Orban e rigettata dalla Corte di Giustizia dell’UE, che pare venire da Marte. Inoltre si cerca di attaccare pure la legge sui minori non accompagnati, all’avanguardia in Europa, che dovrebbero restare provvisoriamente nei centri per adulti e per i quali saranno disposti accertamenti sull’età. Peccato che i minori siano già collocati nei centri di accoglienza per adulti, per mancanza di spazi e per via di una graduale disarticolazione del sistema di accoglienza.
Questa settimana voglio sottoporvi la riflessione di Papia Aktar, italiana di origini bangladesi, che si è indignata per la richiesta di assoluzione del marito di un’altra giovane donna bangladese vittima dei sorprusi dell’uomo a cui era stata “consegnata” e data in sposa per una manciata di rupie. Il magistrato ha chiesto l’assoluzione per motivi legati alla cultura di provenienza. Come se fosse normale in Italia legittimare le violenze per ragioni culturali.
Papia Aktar, 37 anni, un incarico di responsabile Immigrazione per l’Arci di Roma che le permette di seguire da vicino sia le prime sia le seconde generazioni di bangladesi, ha reagito con sdegno davanti a questa vicenda.
Sono scioccata. Io ho la doppia cittadinanza e mi chiedo come si possa affermare che la violenza è insita nella nostra cultura. In Bangladesh la violenza domestica è punita più severamente che in Italia, abbiamo avuto la prima premier nel 1991 e ora sia il primo ministro sia la leader dell’opposizione sono donne. Trovo che la decisione del magistrato sia stata molto diseducativa e anche dannosa per tutte le ragazze che vorrebbero denunciare un matrimonio forzato. E purtroppo sono tante
Partendo da questa bizzarra decisione di un magistrato, Papia Aktar mi ha raccontato una cosa ovvia su cui non ci si sofferma mai troppo anche per colpa della continua strumentalizzazione del tema migratorio. Mi ha detto che ancora oggi è difficile quando non impossibile fornire alle donne di prima generazione, spesso arrivate grazie ai ricongiungimenti familiari dopo matrimoni combinati, l’unico strumento di emancipazione: la conoscenza dell’italiano. «Noi le intercettiamo dopo che i loro matrimoni falliscono e chiedono aiuto. Eppure si potrebbe intervenire prima perché la maggior parte delle ragazze, delle donne, arrivano in Italia in modo legale attraverso il ricongiungimento familiare e quindi sappiamo chi sono e dove sono». Papia Aktar ha lanciato un monito severo perché le bangladesi di prima generazione dovrebbero conoscere bene l’italiano prima di prendere il permesso di soggiorno e sapere così a chi rivolgersi, a chi chiedere aiuto per emanciparsi, anche economicamente. «Con la scusa che non sanno l’italiano, tante mogli vengono seguite e controllate dai mariti preoccupati di difendere il loro onore all’interno della comunità. E invece tutte dovrebbero sapere quali sono i loro diritti in Italia», mi ha raccontato. E non succede solo alle donne bangladesi, pakistane o indiane, più frequentemente soggette al ricatto matrimoniale. Oggi, dopo decenni di flussi migratori, sono ancora la maggioranza le donne immigrate di prima generazione che non lavorano e non sanno l’italiano e hanno pochi strumenti per uscire dal proprio isolamento.
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Quindi io mi chiedo come sia possibile continuare ad evocare l’immigrazione legale come panacea di tutti i mali, come una sorta di vaccino a quella illegale, al traffico degli esseri umani, se poi non esiste una politica di integrazione per le cittadine e talvolta anche per i cittadini di origini straniere
Ci sono molti enti del terzo settore che offrono lezioni di italiano, certo. E anche esempi eclatanti, come la scuola Penny Wirton, ma ormai anche nei centri di accoglienza l’offerta della conoscenza della lingua italiana è drasticamente diminuita per mancanza di fondi e di politiche di integrazione. Perciò, come ha osservato con sarcasmo Papia Aktar, tutti parlano di inclusione, come se vivessimo in una riuscita e felice società multietnica, nonostante sull’integrazione siamo ancora (quasi) all’anno zero.
E ha ragione perché se è vero che le seconde generazioni, per quanto ostacolate dall’ascensore sociale guasto, si arrangiano, vanno avanti, espatriano come tutti i loro coetanei verso Paesi europei più attrattivi, noi non abbiamo ancora fatto i conti con tutti quelli che sono arrivati prima di loro e con le prime generazioni alle quali non è stata data e non viene data una chance per integrarsi. Soprattutto alle donne. Quindi è giusto mettersi di traverso alle politiche illiberali, ai respingimenti, alle farneticazioni sovraniste, ma nel frattempo cerchiamo anche di guardare allo stato dell’integrazione mancata dei cittadini stranieri. Senza l’integrazione, non si può parlare di inclusione. Senza l’integrazione, può arrivare un qualsiasi magistrato che si improvvisa “antropologo” e parla a vanvera di una cultura che secondo lui giustifica la violenza. E siamo nel 2023. A pensarci, è roba da perdere il senno.