Di cosa parliamo, quando parliamo di razzismo? Akleta Llani riflette sulle origini della paura del diverso e prova a capire se sentimenti negativi e proiezioni non nascondano una lotta di classe. Pubblichiamo il suo intervento nell’editoriale dei lettori, creato per lasciare spazio a chi ci scrive la propria opinione in modo argomentato, stimolare la discussione e la riflessione della nostra community.

Di recente ho avuto modo di riflettere e esprimere la mia opinione su un tema che mi sta molto a cuore, il razzismo. Etimologicamente, secondo la Treccani, la parola si riferisce «a un arbitrario presupposto dell’esistenza di razze umane biologicamente e storicamente “superiori” destinate al comando, e di altre “inferiori”, destinate alla sottomissione». Oggi più che di razzismo parlerei di discriminazioni, verso l’estraneo (dal lat. extraneus, der. di extra, ‘fuori’)  ciò che è altro da noi. La diversità in sé non spaventa. Dipende dal grado di diversità e sopratutto ciò che essa comporta. Ossia, se si viene a conoscenza di una realtà diversa ma poi questa non ci contagia, allora va bene. Qualora invece la diversità la si vive come imposta e si teme di perdere la propria già fragile identità, allora il portatore di tale diversità diventa nemico.

È a questo atteggiamento che si ricollega il razzismo, che è comunque insito nel essere umano, e un sentimento di pancia, di sopravvivenza, che ognuno di noi prova a seconda del contesto e nelle varie forme che esso ha assunto nel corso dei secoli. Tutte le culture sono razziste e discriminatorie, sessiste e classiste.

Oggi siamo profondamente soli e spaventati. Ci troviamo divisi tra i buoni e i cattivi, tra chi la diversità non la teme e chi la rifiuta, o almeno rifiuta ciò che pensa saranno le conseguenze. Credo che non sia più il momento di puntarsi il dito contro e accusarsi a vicenda, ma piuttosto tendersi la mano. Sì, tendere la mano verso quelli che riteniamo essere i cattivi. Cercare di capire quale è l’origine del rifiuto, in alcuni casi dare fiducia e quando possibile unirsi, perché il nemico non siamo noi e non sono nemmeno loro.

Chi ha paura è lecito che abbia paura, in fondo sono anni che ci viene detto che il cattivo è il diverso, che è sua la colpa della nostra condizione. Coloro che percepiscono il diverso con timore di solito appartengono alla classe operaia. Ecco perché ritengo che la questione del razzismo di oggi sia più attribuibile a una funzione di classe. Mi spiego meglio.

La società ordina abitualmente le persone in base a un principio di classificazione e sulla base di queste si manifestano gli status: nobili, cittadini comuni, artigiani, immigrati. Come tutti i fenomeni sociali, gli status sopravvivono anche quando sono cambiate le condizioni che l’hanno originata. «Le analisi scientifiche sul razzismo stabiliscono che lo sviluppo del razzismo nella classe operaia sarebbe l’effetto di una tendenza inerente alle masse» (Balibar).

Molti storici del razzismo hanno sottolineato che la nozione moderna di razza, in quanto carica di disprezzo e discriminazione, serve a dividere l’umanità in “sovrumanità” e “subumanità” e che inizialmente aveva significato di classe. Tale significato ha, da questo punto di vista, una duplice origine: da un lato rappresenta l’aristocrazia della nobiltà come razza superiore, dall’altro rappresenta la schiavitù delle popolazioni sottomesse come razza inferiore. È solo in un secondo tempo che il concetto di razza è stato “etnicizzato”. Dunque, è chiaro che le rappresentazioni della storia sono da sempre in rapporto con la lotta di classe.

Il razzismo di oggi è incentrato di preferenza sulla questione immigrazione. Ci sono a mio parere due livelli di razzismo: quello borghese e quello della classe operaia. La classe dominante/borghese non si sente minacciata poiché essa viene in contatto con due tipi di diversità. La prima, proveniente dalla sua stessa classe e status sociale, e in tal caso la diversità è ricchezza, è affascinante: in questo caso il nero diventa bianco.

Quando viene in contatto con l’altra diversità invece, quella di origine immigrata, non la teme comunque perché di solito la relazione è di subordinazione. È quindi di assoluto interesse che la relazione resti tale. L’obiettivo del razzismo di classe, da parte della classe dominante, è quello di marchiare le popolazioni ritenute destinate allo sfruttamento capitalistico, o che devono essere mantenute di riserva per esso. È dunque necessario mantenere al loro posto, di generazione in generazione, coloro che non hanno un posto fisso nella società.

La classe operaia invece vive la relazione con il diverso di origine immigrata con paura, lo vede come rivale, concorrente, troppo vicino a sé e teme questo possa modificare o influenzare il suo status. La diversità in questo caso è qualcosa di oscuro, che può incuriosire ma comunque spaventa, perché è portatrice di tutto quel “peggio” che non si vuole “contrarre”. In questo caso anche il bianco assume il colore nero.

Inoltre, nel conflitto interno tra classe borghese e operaia, quest’ultima soffre la propria condizione di declassamento ed è mossa dal desiderio di sfuggire alla condizione di sfruttamento e di disprezzo, ma la rivolta si realizza proiettando quei sentimenti di timore e risentimento, disperazione e sfida sugli stranieri, una categoria più debole della propria, ma con la quale essa si sente in concorrenza. Tali sentimenti e proiezioni, dunque, non sono altro che sentimenti e proiezioni che la classe operaia tenta di scacciare da se stessa. Quello contro cui combattono in realtà è la propria condizione di sfruttati, quindi in realtà «è sé stessi che odiano perché proletari o perché rischiano di essere ripresi nel vortice della proletarizzazione» (Balibar).

Oggi infatti il boom dei social network è dovuto anche al fatto che questi strumenti permettono di mostrare anche quello che non si è, così si fa a gara per mostrare uno stile di vita over the top, sempre più simile a quello che si vorrebbe avere. Si seguono personaggi più o meno famosi che condividono la propria vita privata perché danno l’illusione di partecipare a un tenore e stile di vita a cui si è sempre aspirato e dal quale si è sempre stati emarginati.

Ma questo è un altro tema su cui si potrebbe riflettere.