Ciao a tutti e a tutte, questo è l’ultimo editoriale prima della tregua estiva e ho deciso di dedicarlo alle storie straordinarie degli atleti e delle atlete che partecipano ai Giochi Olimpici di Parigi nel team dei rifugiati. Atleti che non possono ancora rappresentare la loro nuova casa dove hanno trovato rifugio dopo essere scappati dai loro Paesi di origine. Sono professionisti fuggiti da guerre e persecuzioni e giocano per tutti, per ricordarci che lo sport deve essere inclusivo ma anche rammentarci quanto i diritti umani siano un patrimonio dell’umanità.
Dall’italia sono arrivati a Parigi due iraniani che sono fuggiti dal regime degli ayatollah. Iman Mahdavi, classe 1995, è specializzato nella lotta libera. Ha iniziato a praticare all’età di 15 anni, seguendo le orme del padre ed è arrivato in Europa attraverso la rotta balcanica. Grazie all’aiuto del club Lotta club Seggiano, dove si allena, e della Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali ha potuto intraprendere il programma del Comitato olimpico internazionale (CIO) per gli atleti rifugiati, che gli ha garantito un sostegno economico per la preparazione sportiva sino al 2024. E ora tutta la cittadina di Pioltello tifa per lui perché porti a casa una medaglia e dimostri l’inestimabile valore della libertà.
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È iraniano anche Hadi Tiranvalipour, taekwondoka iraniano, già campione d’Asia e cacciato dalla tv iraniana dove conduceva un programma per aver difeso la rivoluzione Donna, Vita e Libertà. Vive a Roma e dopo essere stato selezionato ha dichiarato “Vorrei essere un esempio per i 100 milioni di rifugiati che hanno perso la loro terra e la loro bandiera”.
Fra i 37 atleti che parteciperanno alle competizioni di 12 discipline sportive, ci sono tantissime donne che ci raccontano cosa siano la tragedia di un rifugiato e la poesia dello sport. Come Cindy Ngamba, nata in Camerun e trasferita nel Regno Unito all’età di 11 anni che è la prima pugile rifugiata a essersi qualificata per i Giochi Olimpici. Leggete la sue parole, senza filtri. Sono magnifiche.
Sono arrivata in Gran Bretagna quando avevo soltanto 11 anni e ormai ho trascorso più anni qui di quanti non ne abbia passati in Camerun. All’inizio fui sopraffatta da tutto. Lo stile di vita era completamente diverso da quello a cui ero abituata. Era tutto eccitante e veloce. Anche troppo, veloce. Facevo fatica ad imparare l’inglese, e spesso a scuola venivo bullizzata per il mio accento pesante. Ero solo una bambina, ma ricordo ogni minimo dettaglio. Ogni parola. Ogni offesa. Per quanto possa essere un cliché, mi hanno reso infinite volte più forte. Smontandomi ogni giorno e obbligandomi a ricostruirmi ogni notte. Più spessa. Più dura. Più Cindy, ha scritto su The Owl Post
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Un riscatto, il suo, che va di pari passo con la sconfitta. Come quando l’hanno minacciata di rimandarla in Camerun, dove lei, omosessuale, avrebbe rischiato il carcere. Oppure quando ha chiesto di diventare cittadina britannica, invano. “Per tanti anni ho tentato di diventare una cittadina britannica.Per rappresentare la Federazione che mi aveva accolta e protetta quando ne avevo più bisogno. Senza successo”, ha scritto. E allora quando mi hanno proposto di unirmi all’IOC Refugee Team, sempre grazie al supporto della Federazione, ho detto di sì, con orgoglio. Ho detto sì, anche se la prima volta che mi hanno chiamata “rifugiata” ho provato un imbarazzo profondo, perché mi sono sentita impotente, indifesa. Sola. Per la prima volta nella mia vita”. E ora ha abbracciato il senso di questa opportunità, ha capito il suo valore, il suo significato. Perché Cindy Ngamba rappresenterà milioni di persone, molte delle quali non avranno neppure la possibilità di guardare i Giochi, ma rappresenterà anche noi che continuiamo a difendere l’azzoppata democrazia europea e a chiedere diritti umani per tutti.
Sono tempi complicati ma ci ritroveremo dopo la pausa estiva 🕊️