Eppure l’emergenza è in Libia, non in Italia, dove Radici continua il suo viaggio fra i nuovi italiani.

Amelia

Amelia Earhart, 1937. National Portrait Gallery, Smithsonian Institution/Wikimedia commons

Dopo il caotico vertice del Consiglio europeo a Bruxelles di settimana scorsa, che ha portato gli stati europei a una prova muscolare per dimostrare chi ha la frontiera più stretta, i porti italiani hanno temporaneamente sospeso le proprie attività di accoglienza. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva promesso ai suoi elettori zero sbarchi e così sembra essere, per ora. C’è una sola nave della Guardia costiera, che sta perlustrando la zona Sar (Search and Rescue, ‘ricerca e soccorso’) di competenza italiana. E i tentativi di attraversamento del Mediterraneo in direzione europea si fermano a poche miglia dalla Libia, dove la Guardia costiera libica recupera migranti, sommersi o salvati, per riportarli indietro nei centri di detenzione, perché la Libia ha ottenuto dall’IMO (International Maritime Organization) l’assegnazione della sua zona Sar, rendendo di sua competenza esclusiva le operazioni di ricerca e soccorso nell’area.

Nessuno sa ancora quanti migranti verranno buttati sui gommoni e lasciati alla deriva per fare pressione sulla coscienza dell’Europa né quanti siano realmente quelli intrappolati che attendono di partire o, ormai stremati, di tornare a casa. Si sa però che le torture e le sevizie nei loro confronti sono un problema che ci riguarda. Cosa succede in Libia? Lo scorso mese, i due uomini che per circa tre anni hanno giocato a “guardie e ladri” davanti alle coste libiche sono finiti nella lista nera del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite insieme ad altri due cittadini libici: il capo della Brigata Martiri Al Nasser di Zawiya, Mohamed Khushlaf, e il trafficante Mus’ab Abu Qarin, di Sabrata, alias Dottor Musab.

Oltre ai quattro libici, sono stati colpiti dalle sanzioni Onu anche due cittadini eritrei, Ermias Ghermay e Fitiwi Abdelrazak, perché accusati di essere leader di una rete attiva nella tratta di migranti, in particolare di decine di migliaia di persone provenienti dal Corno d’Africa. Vale la pena di leggere il racconto di Nancy Porsia, pubblicato sul sito di Open Migration per un approfondimento.

Nel frattempo, continuano ad arrivare velieri dalla Turchia con pochi migranti a bordo: una rotta sottovalutata per i numeri ridotti, che invece per gli investigatori è rilevante, perché questi viaggi dai costi proibitivi, 6.000 dollari a testa, hanno portato migranti, droga e molti misteri. Specie dopo che il 12 giugno il Gicic, il gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina della procura di Siracusa coordinato dal commissario Carlo Parini, ha arrestato i primi scafisti turchi. Alla faccia degli accordi con la Turchia.

Già, la rotta balcanica. Pensate davvero sia chiusa? A Palermo la procura distrettuale antimafia ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di diciassette persone, italiane e straniere, a vario titolo ritenute responsabili di associazione a delinquere a carattere transnazionale dedita al traffico di clandestini sulla tratta balcanica, al traffico di armi e al riciclaggio di denaro e preziosi. Le indagini hanno evidenziato connessioni dell’organizzazione criminale con la mafia catanese oltre che con membri del gruppo paramilitare albanese denominato “Nuovo UCK”, che si occupano di far transitare clandestinamente i migranti in territorio elvetico.

 

Il podio della quotidianità multiculturale

Nel frattempo, da questa parte del Mediterraneo ci si commuove o si polemizza per la vittoria della staffetta di quattro atlete italiane che hanno corso in modo spettacolare ai Giochi per il Mediterraneo e hanno preso la medaglia d’oro. Se la narrazione sull’Italia che cambia fosse un po’ più laica e riflessiva, nessuno si stupirebbe e avremmo tenuto il fiato sospeso solo davanti alle loro falcate, la perfetta sincronia, la capacità agonistica di quattro ragazze cresciute in Italia.

E invece, avvelenati dalla semplificazione, continuiamo a dibatterci come mosche intrappolate in una bottiglia. La vittoria di Raphaela Lukudu, Maria Benedicta Chigbolu, Libania Grenot e Ayomide Folorunso, che ai Giochi del Mediterraneo di Terragona le ha portato sul podio più alto e in maglia azzurra ha fatto discutere. Che siano di origini nigeriane, sudanesi o cubane deve rimanere solo un dettaglio biografico. Loro sono soprattutto italiane, senza se e senza ma, come tantissimi nuovi italiani che salgono sul podio ogni giorno, senza che nessuno se ne accorga (ma perché?). Come racconta il polemista di Radici, Sindbad il Marinaio che parte da lontano, dal proibizionismo, gli Stati Uniti e il jazz.

 

L’Italia che cambia e i nuovi lavori che gli italiani non vogliono più fare

Lul Abdi Ali è nata a Berlino, ha studiato in Somalia, si è specializzata in Italia, dove è diventata medico reumatologo. Cittadina afroeuropea, ha preferito l’Italia alla Germania. E in questo articolo ci racconta la sua storia che l’ha portata a un ospedale di eccellenza. Nell’Italia che cambia ora i lavori che gli italiani non vogliono più fare sono altri. Come ad esempio la guardia medica. Sapevatelo.

 

Questionario/tormentone di Radici

Questa settimana niente politici. Abbiamo chiesto al direttore generale di Afol metropolitana, che si occupa di politiche attive e della formazione professionale anche di immigrati, di rispondere al nostro quiz. Giuseppe Zingale riconosce che il modello emergenziale non funziona e bisogna creare nuove politiche di integrazione, ma non coglie, come tutti, la rilevanza sociale dei nuovi italiani.

Domani, 6 luglio, seconda puntata del podcast di Radici su storielibere.fm o sulla nostra piattaforma, dedicata agli studenti universitari di seconda generazione.

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(Dalai Lama Tenzin Gyatso)