Radici invece continua ad esplorare ciò che accade oltre l’integrazione, a cui nessuno bada, oltre il circuito sia vizioso sia virtuale dell’accoglienza, e rafforza la sua visione sul futuro.

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Amelia Earhart. Wikimedia Commons/Library of Congress

Nell’istante che non passa mai, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è riuscito, dopo un braccio di ferro durato otto giorni, a creare un secondo precedente che divide l’Europa, ma la obbliga a guardare oltre il trattato di Dublino. La nave della Ong olandese Lifeline è sbarcata a Malta e i migranti verranno ricollocati in otto paesi europei. Una meta a cui il nostro Paese insieme a tutti quelli che si affacciano sul Mediterraneo ha sempre ambito, a parole, senza riuscire ad ottenerla. La Germania però ha posto il veto ad accogliere una quota di migranti sbarcati a Malta e solo alla fine del vertice europeo di oggi a Bruxelles, considerato da tutti gli osservatori cruciale, si capirà se il sacrificio dei duecentotrentaquattro migranti, rimasti in balia della politica, in mare per otto giorni, sarà stata una vittoria di Pirro o una conquista, poiché l’Europa da cinque anni ha optato solo per la politica del rimando. Una cosa è certa: il governo porta avanti una sfida che ha scoperto i nervi di tutti i Paesi europei. E aumentano coloro che ora che dicono che chi sbarca in Italia, sbarca in Europa. Perciò la sfida del governo italiano al Consiglio europeo è da osservare con molta attenzione. E per questo motivo ci tengo a rammentare la manifestazione che si è svolta ieri in centosettantatré piazze europee e gli hashtag #EuropeanSolidarity e #ChangeDublin.

Da Glasgow a Lampedusa, la protesta serviva a chiedere ai capi di governo UE, che si riuniscono oggi, di cambiare il regolamento di Dublino nella direzione già indicata dal Parlamento europeo e aprire vie legali e sicure di accesso in tutti i paesi dell’Unione. Organizzata dall’europarlamentare Elly Schlein, relatrice per il gruppo dei Socialisti e Democratici della riforma del Regolamento di Dublino e promotrice della manifestazione, insieme ad una larga rete di cittadini e organizzazioni europee di duecentocinquantanove associazioni: 5.000 adesioni, fra i quali Save the Children, Oxfam, Amnesty International, alcuni artisti e numerosi europarlamentari e deputati italiani di diversi schieramenti. E nel frattempo ieri sono arrivati legalmente altri profughi, centotrentacinque eritrei e quattro somali, grazie ai corridoio umanitari aperti con l’Etiopia alla fine del 2017 dalla Cei in collaborazione con il governo italiano. Segnali importanti, anche se, come è noto, nel rumore della foresta (dei proclami), gli alberi che cadono non fanno rumore.

Il mio mestiere è salvare vite e rendere meno dolorosa la vita delle persone. E a dirlo non è un soccorritore nel Mediterraneo, ma un medico originario del Burundi che lavora in una casa di cura a Vanzago

Una storia straordinaria, quella di Poly, come lo chiamano gli amici. Con lui continua la nostra narrazione settimanale, il nostro impegno per spezzare e spiazzare la narrazione sull’immigrazione e creare nuovi paradigmi con storie ignorate, anzi ignote, all’opinione pubblica e ai media, che inseguono la percezione degli italiani. A noi interessa invece la percezione dei tanti, tantissimi, che ce l’hanno fatta e costruiscono la società multiculturale. Polycarpe Majoro è un medico nato in Burundi trentatré anni fa, dove ha avuto un’infanzia drammatica ed è stato un baby soldato. Poi è venuto in Italia, dove si è laureato all’università dell’Insubria a Varese. E ha deciso di dare la prima intervista sulla sua vita, che sembra un romanzo, a Radici. Perché?

A chi mi chiede come è andato il mio viaggio sul gommone, rispondo che la classe economy di Alitalia non è male

Saodiatou Diao, ha vent’anni e studia Scienze Politiche. Adora Milano e per lei Gallarate è un villaggio remoto. Il 21 giugno scorso, insieme a Omar Sene e Aris Giavelli, ha partecipato all’incontro di Radici all’interno della rassegna Insieme Senza Muri, convincendo gli scettici che è possibile guardare all’immigrazione con sguardo diverso e anche con ironia.

Le radici che non si possono spezzare: il romanzo dell’iraniana Maryam Madjidi Io non sono un albero

Cittadina francese di origine iraniana, a soli trentotto anni Maryam Madjidi afferma di essere nata tre volte: la prima in Iran nel 1980, la seconda nel 1986 quando è arrivata a Parigi e l’ultima nel 2003, quando è tornata in Iran. In Io non sono un albero, il suo esordio letterario, oggi pubblicato anche in Italia per i tipi di Bompiani, Madjidi ha scritto del trauma dell’esilio e di tutto ciò che significa per lei sentirsi diversa rispetto agli altri a causa di quello sradicamento iniziale.

Tumaranké, un diario intimo girato in un anno da 38 migranti con lo smartphone

Tumaranké è una parola che in lingua bambara, parlata in Mali, definisce chi si mette in viaggio alla ricerca di un futuro migliore. Ed è anche il titolo del documentario collettivo girato con uno smartphone da trentotto giovani migranti, prodotto da Dugong Films. Giovani migranti sono stati formati dal regista milanese Andrea Caccia all’utilizzo del linguaggio dell’immagine e alla pratica del filmmaking per stimolare il loro sguardo e aiutarli a filmare le loro realtà utilizzando lo smartphone come mezzo di ripresa per raccontare il loro quotidiano, le loro storie e la loro esperienza d’integrazione.

Questionario/tormentone di Radici: Risponde l’ex viceministro Teresa Bellanova

Sindacalista, parlamentare del Pd, viceministro allo Sviluppo Economico, incalzata da Radici, riflette sull’integrazione che non può essere vista con la lente dell’emergenza. Bellanova coglie la complessità del tema dell’integrazione, anche se in modo un po’ astratto. O quantomeno confinato al circuito dell’accoglienza. E ci incoraggia ad andare avanti nella battaglia contro gli stereotipi.

 

Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere

(Dalai Lama Tenzin Gyatso)