Editoriale NuoveRadici.world

I tormenti del giovane somalo, che in Calabria ha denunciato il suo torturatore libico. Al netto delle modifiche del Memorandum Italia-Libia che non hanno cancellato il peccato originale, ossia il sostegno alla Guardia Costiera che riporta chi fugge verso l’Europa nei centri di detenzione e tortura, è scoppiato un caso giudiziario rimasto per ora nel perimetro delle notizie locali.

Un migrante somalo ha riconosciuto il suo carceriere nel centro richiedenti asilo di Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto e lo ha denunciato per le torture subite in un campo di prigionia, prima di arrivare in Italia nel gennaio scorso a Taranto a bordo della Ocean Viking. 

Le indagini della Dda di Catanzaro hanno portato al provvedimento di fermo per associazione a delinquere, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma l’imputazione per la tortura è caduta in sede di convalida del fermo perché secondo il gip di Crotone la competenza spetta alla Libia quale locus commissi delicti. Francesca Pesce, avvocato e responsabile del dipartimento diritti umani del sindacato forense Mga, ci ha spiegato: «La decisione del gip contraddice un principio di diritto internazionale penale che riconosce quello di giurisdizione universale, ossia la capacità degli Stati e delle organizzazioni internazionali di rivendicare la giurisdizione penale su una persona accusata, indipendentemente da dove il presunto crimine sia stato commesso, indipendentemente dalla nazionalità dell’imputato, dal Paese di residenza o da qualsiasi altra relazione con l’ente che procede».

Il reato di tortura rientra tra i crimini per i quali sussiste la giurisdizione universale, ovvero tra quelle gravi violazioni al diritto internazionale umanitario previste dalla convenzione di Ginevra e ratificata dall’Italia.

Gli stessi rapporti delle Nazioni Unite hanno ribadito più volte che il governo guidato da Al Sarraj non è nelle condizioni di giudicare i crimini commessi nei campi di detenzione governativi e non, laddove è emerso che anche i campi non gestiti direttamente da funzionari governativi godono del placet dell’autorità libica. «Spero che la procura distrettuale di Catanzaro riporti Crotone in Italia», ironizza l’avvocato Pesce, «per garantire la celebrazione del processo anche per il reato di tortura, perché a Palermo, Milano, Agrigento i carcerieri dei migranti sono stati processati».  

Per ora non sappiamo molto del migrante somalo, tranne che nella bolgia di un centro di accoglienza molto affollato ha individuato il suo presunto aguzzino, che prima avrebbe tentato di corromperlo e poi lo avrebbe minacciato. Non sappiamo molto del cittadino libico, tranne il fatto che il suo soprannome è Peter il Boss e si trova in Italia dal novembre scorso, dove aveva chiesto protezione internazionale. Il giovane somalo ha raccontato alle forze di polizia di avere subito bastonate, sevizie, minacce di usare l’elettricità per ottenere soldi o per mantenere l’ordine nella prigione dove venivano (vengono) tenuti i migranti prima di farli imbarcare per l’Italia. Una prassi ordinaria, come emerge dagli ultimi rapporti delle Nazioni Unite.

Indipendentemente dalla controversia giuridica e processuale (per ora si sono concluse le indagini preliminari e il processo non è ancora iniziato), il reato di tortura è un crimine contro l’umanità e va perseguito. La Libia è sempre più vicina e i suoi torturatori anche.

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