Questa settimana voglio dedicare l’editoriale a un uomo solo, a suo modo irregolare, di cui stanno parlando tutti i giornali in questi giorni senza conoscerlo: il commissario Carlo Parini che dal 2006 ha guidato il Gicic, il Gruppo Interforze di contrasto all’immigrazione clandestina all’interno della procura di Siracusa. Nei giorni scorsi il suo gruppo, che per anni ha affrontato a mani nude e con poche risorse migliaia di sbarchi e fatto indagini su scafisti, trafficanti, reti criminali di basisti che dalla Sicilia a Milano organizzavano il traffico di esseri umani, è stato chiuso. Ufficialmente per mancanza di sbarchi, in realtà per ignavia. Il Viminale non ha voluto salvare un’esperienza unica in Italia che doveva essere replicata e non abbandonata. E mi auguro che la competenza di questo straordinario investigatore non venga dispersa, ma valorizzata in altro modo poiché il commissario Parini conosce tutti gli anfratti dei flussi migratori e ha portato avanti la sua attività investigativa, senza mai dimenticare che stava accogliendo un pezzo di umanità dolente. Conosco bene quest’uomo e funzionario dello stato perché l’ho seguito per mesi e ho scritto un’inchiesta romanzata sul suo lavoro nel luglio 2015: Mare Monstrum, Mare Nostrum. La prima volta che lo incontrai nel porto di Augusta dove arrivavano ogni giorno migliaia di siriani in fuga dalla guerra, ne rimasi folgorata. Mi disse «Stasera non arrestiamo nessuno. Sono solo dei disgraziati, avranno guidato il barcone per pagarsi il viaggio. Io voglio mettere in galera i delinquenti, non i disgraziati». Per mesi e per gli anni a seguire, fino al 2017, è stato lui la mia guida per capire cosa succedeva ai migranti, una volta arrivati nei porti. A comprendere cosa si celava dietro quelle storie che apparentemente sembravano tutte uguali. Carlo Parini non è un cacciatore di scafisti, come è stato definito in questi giorni. Aveva, anzi ha, oltre il fiuto, un’umanità fuori dal comune. La prima volta che entrai nel suo ufficio, lo trovai sepolto da dossier, immagini, citazioni e poesie appese alle pareti. E in un angolo sacchi neri pieni di oggetti di coloro che non ce l’avevano fatta ad attraversare il canale di Sicilia o risultavano dispersi. Un caos drammatico e creativo in cui solo lui sapeva districarsi. Per mesi, mi ha donato le sue storie, di chi ce l’aveva fatta, dei dispersi, dei naufraghi, mi ha mostrato delle foto agghiaccianti dei cadaveri ustionati e mutilati che non potevano essere divulgate. Una storia immensa che solo parzialmente è finita nel libro. Un suo collaboratore lo chiamava Mr. Google per la sua formidabile memoria fotografica, ma era, anzi è anche un investigatore d’altri tempi, di quelli che si trovano appunto solo nei libri. Con lui ho potuto seguire gli arresti, i colloqui con i migranti, gli interrogatori. E sono stata testimone della sua fatica nel gestire i flussi dei migranti con un profondo senso della giustizia. Per lui non erano importanti solo i numeri degli arresti degli scafisti, ma si preoccupava di capire chi poteva essere sottratto alle organizzazioni criminali e successivamente integrato. Non è stato mai un burocrate, ma semmai un milite ignoto, che lavorava senza sosta nella trincea mobile del porto di Augusta. E nessuno sa che una sua indagine sul traffico dei velieri, che sono arrivati e continueranno ad arrivare dalla Turchia, ha suscitato l’interesse dell’Europol per capire chi ci fosse dietro quel traffico silenzioso e molto remunerativo. Un’indagine importante che con la chiusura del gruppo si è fermata. Per me Carlo Parini è stato più di una straordinaria avventura professionale. È stata una guida, un compagno di viaggio, un amico che con pazienza paterna mi ha fatto entrare in un universo sconosciuto. Talvolta, scherzando l’ho definito un dono del destino. E infatti mi ha regalato uno sguardo sul flusso dei migranti della Libia che ha modificato la mia percezione del fenomeno. Non dimenticherò mai le giornate e le notti passate nel porto di Augusta. E vorrei tanto che tutti quelli che hanno parlato di lui in queste ore o dopo brevi visite al porto, potessero conoscere fino a dove si è spinto per fare bene, meglio, forse troppo il suo lavoro che per lui è stata una missione. Sul mio iPad ho registrato tutte le mie giornate, anche quando, molto di rado, nell’ufficio del Gicic calava il silenzio. Il commissario si arroccava nei suoi pensieri, e io ero così ansiosa di capire ciò che stava succedendo, così attenta a non disturbare il flusso dei suoi ricordi, che mi capitava di registrare anche solo il rumore della pioggia che batteva sulle finestre, in una città di solito accecata dalla luce. Ho scritto questo lungo editoriale perché voglio rendergli omaggio, ma anche perché è da quella storia che è nata l’esigenza di andare oltre l’emergenza e fondare una testata che si occupasse dell’integrazione e delle nuove generazioni. Potete ascoltare le sue riflessioni anche nei podcast che abbiamo realizzato con storielibere.fm.
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