Ho sbagliato quando, costretta come tutti a vivere in un mondo improvvisamente svuotato dagli esseri umani, ho auspicato con cauto ottimismo un’evoluzione della convivenza civile. Ho avuto (forse) ragione quando ho pensato che avremmo ripensato il concetto di diversità dopo aver sperimentato cosa significhi sentirsi tutti stranieri.
L’ira funesta che si è abbattuta contro Silvia Romano è davvero un pessimo segnale. Non voglio entrare nel merito della sua conversione poiché ora ogni giudizio sarebbe prematuro. Nella magnifica lettera aperta di Maryan Ismail, cittadina di origine somala che conosce bene la brutalità del gruppo jihadista Al Shabaab che le ha ammazzato il fratello, c’è tutta quella saggezza che si doveva dimostrare davanti al dramma di una giovane che ha fatto un solo errore: si è affidata a un’organizzazione umanitaria poco seria. Ne riporto alcuni passaggi, per me più significativi.
Comprendo tutto di Silvia. Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere. E in un nano secondo, ha scritto Maryan Ismail sul suo profilo Facebook, spostando il dibattito delirante su un ragionamento laterale e ponderato.
«Attraversare la savana dal Kenya e fin quasi alle porte di Mogadiscio in quelle condizioni non è un safari da Club Mediterranee… Nossignore è un incubo infernale, che lascia disturbi post traumatici non indifferenti. Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che per cortesia non ha nulla di SOMALO, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza), né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura (…). E poi quale Islam ha conosciuto Silvia? Quello pseudoreligioso che viene utilizzato per tagliarci la testa? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti? (…) I simboli, soprattutto quelli sul corpo delle donne hanno un grande valore. E quella tenda verde NON ci rappresenta. Quando e se sarà possibile, se la giovane Silvia vorrà, mi piacerebbe raccontarle la cultura della mia Somalia. (…) Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo. E infine ho trovato immorale e devastante l’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro».
Dai passaggi che ho scelto della lettera di Maryan Ismail, si può capire quale doveva essere l’atteggiamento equilibrato nei confronti di una tragedia personale e di una faccenda pubblica complessa. Purtroppo ragionare in modo articolato o, ancora meglio, tacere in attesa di capire il valore simbolico e drammatico della sua liberazione sarebbe stato un compito improbo.
E allora meglio insultare, scannarsi, buttare palate di idiozia e di odio contro Silvia Romano perché ora è lei il bersaglio facile del nostro scontento. È lei la diversa da annichilire con una valanga di parole usate alla rinfusa, con il solito giustizialismo d’accatto.
Ora è Silvia Romano a rappresentare la diversità da cancellare. E non perché abbiamo paura di lei (mentre dovremmo averla nei confronti del gruppo jihadista che l’ha sequestrata), ma per un banale e inaccettabile motivo: tanti, troppi, hanno bisogno di odiare e rotolarsi nel fango della polemica fine a se stessa. E allora non importa se siano bianchi o neri, basta che siano vulnerabili e percepiti come diversi.
Non ho mai pensato che il mondo sarebbe diventato migliore finita la quarantena, ci mancherebbe, ma ho sbagliato a pensare che i segni lasciati dalla paura, dall’isolamento, la consapevolezza comune di non essere immuni all’imprevisto ci avrebbe quantomeno indotto a farci qualche domanda. Su un punto (forse) ho avuto ragione: non siamo un popolo di razzisti, ma spesso privi della facoltà di discernimento.
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