Chi invece è salito a bordo ha colto la sfida di Radici.

Dona a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere

(Dalai Lama Tenzin Gyatso)

Amelia earhart 1937

Amelia Earhart, 1937. Wikimedia Commons

Le diverse reazioni alla prima newsletter mi hanno fatto riflettere. E mi hanno dato la conferma di aver iniziato un cammino difficile, controcorrente, ma necessario. Chi crede alla teoria dell’invasione ritiene che Radici sia immigrazionista – brutto neologismo per dire che si è a favore degli immigrati. Chi invece si è adagiato sui comodi stereotipi dell’emergenza non riesce bene a focalizzare il tentativo di Radici di spostare lo sguardo dalle categorie sociali che appartengono alla prima generazione di stranieri, arrivati 20/30 anni fa, alle nuove cresciute in Italia. E quindi, siccome non voglio continuare a vivere come nel film Groundhog Day (in cui Bill Murray si sveglia e vive sempre la stessa giornata), ho deciso di seguire il consiglio di tutti coloro, per fortuna già numerosi, che invece hanno colto al volo il senso di Radici. E quindi ci tengo a ribadire che la newsletter è solo uno dei primi strumenti che ci diamo dati sulla nostra piattaforma digitale per narrare ciò che è accaduto senza che ce ne accorgessimo. Perché sono stufa di partecipare a dibattiti in cui si esordisce più o meno in questo modo: in Italia ci sono 5 milioni di stranieri (quasi 6, compresi gli irregolari) e poi si passa a parlare di frontiere (parzialmente) chiuse in Europa – problema gravissimo per carità – o dei lavori che gli italiani non volevano più fare, ma no forse invece ora li vogliono fare e ci portano via il lavoro, anzi no sono biecamente sfruttati. E via ancora a parlare per sentito dire, per articoli letti fermandosi ai titoli, di badanti, raccoglitori di pomodori o di finti profughi cioè migranti economici e dei trentacinque euro al giorno per mantenerli. Liberi di adagiarvi, se lo preferite. Ma Radici vuole provare ad avere una visione complessiva e problematica. E vuole raccontare ciò che accade nelle imprese e nelle università, perché dopo anni che assistiamo alle stesse immagini di sbarchi, scontri sui centri di accoglienza, continuiamo a voltare le spalle ai cambiamenti. E senza sedersi in curva allo stadio a fare il tifo per gli immigrazionisti (odiosa parola usata come insulto) o per chi vorrebbe erigere muri e, paradossalmente, anche fra i più politicamente corretti (una volta si diceva “progressisti”) si liquida il tema delle nuove generazioni di immigrati dicendo “Vabbè, ma tanto sono italiani. Basta che non ci tocchino il presepe”, andremo avanti a raccontarvi le eccellenze di tutte le generazioni. E per eccellenza intendiamo chiunque abbia contribuito a rinnovare questo Paese. Con un’attenzione speciale, non smetterò mai di sottolinearlo, alle seconde generazioni, perché è con loro che ci si dovrà confrontare nel mercato del lavoro. E perché è con loro, che non sono per forza assimilati, che bisognerà porsi interrogativi culturali.