La riflessione, parzialmente autocritica, dell’ex ministro Livia Turco, pubblicata su Il Foglio di oggi, coglie il segno di quanto sta accadendo nel nostro Paese sul fronte dell’immigrazione (e nessuno si tiri fuori). Il suo interrogativo su come mai anche nell’animo di molte persone di sinistra si sia radicata l’ostilità verso gli stranieri è significativo.
Noi a sinistra non abbiamo mai preso di petto sul piano della elaborazione culturale, del dibattito pubblico e della costruzione di una narrazione il tema: Come stiamo insieme? Cosa facciamo insieme? Come costruiamo comunità, cittadinanza, convivenza?, ha scritto Livia Turco.
Non sono interessata a intervenire nel dibattito interno al Pd, ma la domanda posta è cruciale. E riguarda tutti. Finché si affronta l’immigrazione in modo astratto, solo da una prospettiva economica (affermando che gli immigrati sono una risorsa), non si fa che alimentare il rancore con cui però bisogna fare i conti. Così come ostentare corpi e volti sorridenti di giovani di diverse nazionalità per fare le photo opportunity e dimostrare che siamo ormai una società multietnica non favorisce la coesione sociale.
Per troppo tempo i valori della solidarietà e dell’accoglienza sono stati sbandierati come una verità indiscutibile senza promuovere politiche di convivenza. Quelle che chiamiamo best practice hanno riguardato quasi esclusivamente gli aspiranti rifugiati. Ignorando, o meglio rimuovendo tutti gli altri. Ossia la maggioranza di stranieri residenti o le nuove generazioni di italiani. Senza un modello, ognuno ha fatto il proprio percorso. Il nostro racconto quotidiano — che invece astratto non è — dimostra gli effetti contrastanti dovuti alla mancanza di politiche sull’integrazione.
Molti affermano che sarebbe ora di sostituire il termine integrazione con quello dell’interazione che rappresenta meglio il melting pot, cresciuto nonostante gli sbagli della politica. Personalmente bado più ai fatti che ai sociologismi.
Per contrastare la narrazione intrisa di odio, non si devono cercare modelli. Troppo tardi. Meglio valorizzare ciò che è cresciuto bene su un albero storto e far dialogare segmenti della società che si sono arroccati dentro una fortezza di paura o, al contrario, di astio. E per farlo in modo concreto, si devono intrecciare le radici di tutti i cittadini italiani e favorire la convivenza. Con il vento contro è difficile, ma da qualche parte bisogna cominciare.
Rosa Melgarejo: «In Italia, dovrebbe bastare il camice bianco. Non il colore della pelle»
La presidente del Gruppo Infermieri del Mondo racconta una vita passata in ospedale, tra chi ancora non crede che uno straniero possa parlare bene l’italiano e chi ha paura di venire operato con un machete. Di Marco Lussemburgo.
Né comparse né comprimari: gli afroitaliani saranno protagonisti
Andrà in onda nel 2020. Lo sta scrivendo Antonio Dikele Distefano, lo scrittore ventisettenne, nato a Busto Arsizio (vicino a Varese) da genitori angolani. Titolo provvisorio della serie: Zero. Ambientata in Italia, avrà per protagonisti ragazzi afroitaliani. Di Sindbad il Marinaio.
Quelli che continuano a fare figli in Italia, oh yeah!
Vale ancora l’adagio pubblicistico per cui a compensare la scarsa natività degli italiani ci penserebbero gli immigrati? L’Istat dà una risposta precisa (e non è quella che vi aspettate). Di Fabio Malagnini.
Rifugiato. Un’odissea africana
L’ultimo long read è dedicato al libro scritto da Emmanuel Mbolela, giovane attivista di origini congolesi, perseguitato nel suo Paese d’origine e diventato profugo, che racconta quelle che per lui sono le vere ragioni (politiche) dell’immigrazione odierna. Pubblicato da Agenzia X.
Chiamatemi Ab, io lavoro per creare nuove leadership a livello internazionale
Abderrahmane Amajou ha 33 anni, voleva fare il poliziotto ma non ha avuto la cittadinanza in tempo. È italomarocchino, ambasciatore della Cultura Rom, e lavora per creare una nuova leadership con una sponda negli Usa.