L’unione fa la forza. Lo abbiamo sentito ripetere come un refrain sul quale sempre più spesso abbiamo smesso di concentrarci, abituandoci a considerarlo solo un “semplice” proverbio.
Invece ci sono azioni in cui la forza dell’unione, coniugata alla sinergia di più realtà, riescono a creare qualcosa di straordinario.
È il caso del progetto Vircov19, nato e cresciuto nella provincia di Frosinone durante l’emergenza Covid, per far fronte alla gestione del rischio contagi, ma non solo, all’interno dei centri di accoglienza per migranti.
Vircov19 è l’acronimo lunghissimo di vulnerabilità e inclusione nei centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo e l’impatto della pandemia da Covid-19, ma si chiama così anche per ricordare Rudolf Virchow, il medico liberale incaricato nella primavera del 1848 dal governo prussiano di condurre una ricerca sulle cause di un’epidemia di tifo, scoppiata in Alta Slesia.
L’idea nasce nell’ambito del progetto Passi (Programma di assistenza, sostegno, sviluppo e integrazione a richiedenti asilo e migranti che vivono in condizioni di marginalità e/o difficoltà economica e sociale) che vede la collaborazione dell’Asl di Frosinone, dell’università di Cassino, oltre a diverse cooperative sociali.
«La pandemia ha colto tutti di sorpresa, ma è innegabile che affrontarla all’interno di realtà come i centri di accoglienza sia stata e sarà una doppia sfida molto complessa perché si tratta di persone vulnerabili e spesso usate come capro espiatorio», ci ha spiegato la professoressa Alessandra Sannella, docente di Sociologia e Politiche Sociali presso l’università di Cassino. «Le realtà aderenti al progetto Passi, hanno deciso di unire le forze per dare vita ad un protocollo strutturato per gestire l’emergenza. Oltre alla Asl di Frosinone e all’ università, ci sono anche quattro cooperative sociali che hanno aderito al progetto: Diaconia, Eureka, La Speranza ed Anthea».
I focus group con i migranti
La prima fase ha previsto una formazione specifica dedicata agli operatori dei centri di accoglienza che lavorano quotidianamente a contatto con gli ospiti dei centri, tenute dalle infettivologhe Ilaria Uccella e Katia Casinelli. Successivamente, si è passati all’attuazione della fase pratica che, come ha ci ha spiegato la professoressa Sannella, ha avuto come obiettivo «la sostituzione dell’allarmismo con la consapevolezza». La modalità pensata per interagire con gli ospiti migranti è stata quella dei focus group: trenta incontri ai quali hanno partecipato massimo cinque-sei utenti per volta, nel rispetto delle norme su quanto riguarda dispositivi di protezione e distanze di sicurezza.
Spiega David Donfrancesco della cooperativa Eureka: «Il primo step è stato quello di fornire agli ospiti le indicazioni pratiche sulle norme di prevenzione e le procedure da seguire in caso si fosse verificato un caso di positività al virus, all’interno del domicilio dove vivono. Questo ha portato alla stesura di un regolamento interno condiviso da tutti gli ospiti, stilato grazie al contributo delle loro idee».
Avere un quadro chiaro della situazione ha permesso di evitare episodi di panico perché ogni passo è stato spiegato in maniera precisa. Ognuno di loro si è sentito immediatamente più sicuro nel sapere quali fossero i gesti da compiere per evitare ed, eventualmente, gestire un contagio.
Una delle chiavi di successo del progetto è stato proprio il riconoscimento del protagonismo degli ospiti. «Non sono state loro imposte regole o direttive dall’alto, ma ognuno di loro ha avuto voce in capitolo, contribuendo ed esprimendo idee ed opinioni», aggiunge Donfrancesco. «Si è trattato di un momento significativo non tanto verso l’integrazione quanto verso l’inclusione, che consiste in una riflessione critica sui limiti del contesto ospitante, e coinvolge quindi anche noi operatori».
Prevenzione psicologica
Non solo indispensabili indicazioni pratiche, ma anche una particolare attenzione all’aspetto psicologico. A cadenza settimanale infatti, due psicologhe ed un’antropologa della cooperativa diocesana Diaconia si sono recate agli incontri per supervisionare le condizioni dello stato emotivo e dell’equilibrio psico-fisico dei migranti.
«Il nostro compito è stato quello di sostenere gli ospiti dal punto di vista della loro stabilità», ci ha spiegato la dottoressa Marcella Lo Bosco, psicologa che ha supervisionato il progetto per conto di Diaconia. «Abbiamo cercato di fare in modo che ognuno di loro potesse dare voce alle proprie paure».
Non dimentichiamo che si tratta di persone che hanno alle spalle vissuti dolorosi e traumatici, senza contare l’aspetto culturale, che vede l’elemento della malattia e della cura concepito in maniera differente a seconda del proprio background
Come ha sottolineato il dottor Lucio Maciocia, lo psicologo responsabile del progetto per conto dell’azienda sanitaria, è stato fondamentale porsi agli ospiti dei centri attraverso un approccio relazionale paritetico. «Di fronte ad un’emergenza sanitaria come quella del Covid, che ha comportato un isolamento individuale», ha spiegato a NRW, «è stato fondamentale far sì che l’isolamento non diventasse anche sociale perché la risposta a questi eventi deve necessariamente essere di natura comunitaria».
E i risultati raggiunti sembrano più che positivi. Gli ospiti hanno partecipato con interesse ai focus group, ponendo domande, proponendo idee e soluzioni. Il lockdown – costringendoli a trascorrere il tempo a stretto contatto negli appartamenti in cui risiedono – ha fornito loro un’occasione per aprirsi di più l’uno con l’altro, condividendo esperienze e ricordi spesso anche dolorosi, a saldare legami e a creare empatia. E così gruppi di coinquilini provenienti da diverse aree del mondo sono diventate delle vere e proprie famiglie.
Nel nome di Virchow, il medico liberale che mise una pietra miliare della medicina sociale.