Julio José Tapia Montanez, 22 anni, peruviano in attesa di cittadinanza italiana, studente di Economia e Statistica all’Università di Torino, nel direttivo di NILI (Network Italiano dei Leader per l’Inclusione), guarda molto avanti: «Concetti come nazione o stato andavano bene nel Novecento. Adesso sono sbiaditi. Meglio parlare di identità. Oggi ci si muove di più in Europa. Gli Erasmus hanno creato una generazione di europei. Io stesso, anche se non ho ancora la cittadinanza, ho un’identità peruviana, italiana ma soprattutto europea».

Come lei ci sono molti giovani che vengono dall’estero, vivono qui e non hanno ancora la cittadinanza…

«Gli immigrati sono una risorsa. Arricchiscono il Paese. Ci danno una dimensione internazionale. Fino agli anni Ottanta l’Italia aveva una dimensione di grande paesone di provincia. Lo diceva Adriano Olivetti, l’imprenditore che considero uno dei miei punti di riferimento: “È importante fare parte di una comunità, ma bisogna essere cittadini del mondo”».

Per questo ha lasciato il suo Paese?

«Sono arrivato in Italia che avevo 10 anni. Mia madre era venuta qui già nel 2001. In Perù c’era una forte crisi economica. Eravamo usciti da poco dalla dittatura. La maggior parte dell’immigrazione dal Perù è degli inizi del Duemila. I primi due anni siamo stati a Milano. Poi a Cuneo, dove ho fatto le superiori. A 17 anni sono diventato rappresentante d’istituto. Ho iniziato a maturare i primi interessi sociali e politici, nonostante non avessi la cittadinanza italiana».

Come mai?

«I problemi burocratici di sempre. Mia madre ha la cittadinanza. Io non ho fatto in tempo e sono diventato maggiorenne. Sto facendo i documenti ora. Non essere un cittadino italiano può essere un ostacolo in molte cose. Ad esempio potrei fare uno stage in Commissione Europea, ma non potrei essere assunto. Solo perché non sono italiano e dunque nemmeno europeo. Lo considero un ostacolo perché io penso soprattutto alle cose che potrei dare a questo Paese, non a quelle che potrei ricevere».

Frequenta l’università, fonda start up, scrive racconti… Molti impegni…

La start up si chiama Campus 4.0, l’abbiamo fondata 2 anni fa. È un network in cui si incontrano università e impresa, professori e imprenditori. Al centro ci sono gli studenti. Abbiamo organizzato un ciclo di conferenze su Industria 4.0. Vogliamo seguire in modo concreto lo sviluppo dell’innovazione.

Poi c’è la scrittura.

«Ho sempre avuto una passione per la letteratura. E sono sempre stato un sognatore. Con alcuni amici abbiamo scritto dei racconti che sono finiti nel libro Utopia concreta pubblicato nel 2018 da Nerosubianco Edizioni. L’utopia è la base per immaginare il futuro. È il primo passo per raggiungerlo».

Lo diceva anche Adriano Olivetti: Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande.

Lo cita spesso, Adriano Olivetti…

«Sono cresciuto in Perù con mio nonno che era imprenditore. Mia madre era già in Italia a lavorare. È stato lui ad insegnarmi i valori più importanti, il sacrificio e l’altruismo. Mi diceva: “Non è importante quanti soldi hai, ma come li spendi”. Le cose che diceva Adriano Olivetti sono quelle che sentivo da mio nonno».

Il suo Perù dov’è oggi?

«È la base del mio essere. Ma non si può più pensare a una nazione sola. C’è il mio Perù come la mia Italia. Ma sono soprattutto europeo».

Parole quasi impossibili da sentire da un italiano della sua età.

Chi è nato qui da genitori italiani non è abituato a pensare a certe cose. Le sente come acquisite. Noi siamo più abituati a mettere in relazione queste due parti.

Per questo come NILI, il Network Italiano dei Leader per l’inclusione, avete deciso che il prossimo workshop sarà a Roma il 17 marzo, nell’anniversario dell’Unità d’Italia?

«Il nostro sogno è quello di mettere l’Italia ai primi posti nel mondo dell’innovazione. Noi lavoriamo per l’inclusione che è anche inclusione delle identità. Quella data è simbolica anche per noi. Come diceva Indro Montanelli: “Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”. E io aggiungo che solo così si può immaginare anche il futuro».