A 14 anni Zelìe Adjo arriva per la prima volta in Italia dal Togo, al seguito di una compagnia di danza tradizionale africana, gli Atchina. Sono gli anni ’90 e gli africani che possono migrare sono ancora pochi, men che meno con il visto d’ingresso “artistico”.
«La vera difficoltà- ricorda ora Zelie, cantante e attrice italo-togolese con base a Milano – era ottenere il visto la prima volta, se ci riuscivi dopo ti arrivava in automatico o quasi». A diciotto anni decide di fermarsi in Italia e si iscrive a una delle più note scuole di teatro e di mimo milanesi: Quelli di Grock. Cinque anni di studio, costruzioni sceniche, metodi e tecniche teatrali per approdare finalmente al palcoscenico ma la realtà del teatro italiano, quello che, per capirsi, scommette ancora i suoi abbonamenti sulle repliche di Pirandello e Molière, è una realtà molto dura per un’artista africana.
La verità è che in Italia chiamano un attore nero solo per i ruoli “di colore”: in pratica per Otello e poco altro. Rispetto alla Francia, dove è normale vedere un Re Lear o un’ Ofelia africani, da questo punto di vista il teatro italiano è rimasto indietro di qualche decennio.
Il teatro sperimentale, con le sue aperture, offre maggiori opportunità?
«Ho lavorato come coprotagonista in un opera di Antonio Sixty, un’esperienza decisamente interessante, ma per la verità anche in questo caso si trattava di un ruolo pensato per un’attrice nera!».
C’è una figura femminile, nella storia del teatro occidentale, che sente più vicina?
«Diverse, alcune ho anche avuto modo di provarle in accademia, dove in genere mi vedevano più portata per la Commedia. Poi però Lady Macbeth è quello che ho amato di più e che mi piacerebbe un giorno poter interpretare, come una specie di Crudelia De Mon, quando incontrerò il regista giusto (risata)».
Oggi Zelìe Adjo è conosciuta soprattutto come cantante, per la musica ispirata alla tradizione dell’Africa Occidentale. Quando ha maturato questa vocazione artistica?
«In realtà ho sempre cantato anche da bambina, al villaggio ma, è vero, è stato solo a Milano dopo i 25 anni che mi sono concentrata professionalmente sulla musica. Ho frequentato la scuola NAM di Tullio De Piscopo e ho cominciato dai concerti di beneficenza, dalla gavetta. La musica che scrivo e che interpreto non è facilissima a un primo ascolto perché si richiama alla tradizione vocale africana più raffinata ed elegante, e forse meno nota al grande pubblico. Questa è anche la ragione per cui oggi mi auto-produco, dopo l’esperienza negativa del primo disco, con un’etichetta tradizionale che ha insistito per un suono dance, più commerciale. Semplicemente perché non ci credeva».
Il suo ultimo singolo, Tsoèke, è ricco di suggestioni e di richiami alla tradizione, ha dei modelli o comunque ci sono artisti che l’hanno ispirata più di altri?
«I miei modelli sono sempre stati femminili, quando ero più giovane ascoltavo soprattutto Billie Holiday e le cantanti americane, oggi i miei modelli sono Cesaria Evora, Miriam Makeba e Bella Bellow, una grande cantante togolese. E, ovviamente, ammiro molto Angélique Kidjo e Fatoumata Diawara».
Qual è oggi il pubblico di Zelìe Adjo?
«È un pubblico misto, prevalentemente italiano ma in parte anche afro. Ultimamente a Milano canto spesso in un centro di quartiere, assieme a un’amica, Astou Seck, un’altra artista di origini africane, e vedo gente di ogni età, dai 18 a 60 anni, anche se è vero che mio figlio di 14 anni ascolta soprattutto musica rap o trap».
Suo figlio Kevin è nato qui e gioca nelle giovanili dell’Inter. Come vive le sue radici?
«Direi bene perché pur essendo italiano ho voluto rimanesse comunque in contatto con la nostra famiglia, che vive in Togo, anche approfittando delle vacanze. Ma io stessa dopo tanti anni, al di là della nazionalità italiana, non posso che considerarmi almeno in parte italiana per cultura».
Se ne parla molto di questi tempi: anche suo figlio ha subito episodi di razzismo in campo?
Sì sono capitati spesso episodi spiacevoli. Prima Kevin subiva e non diceva niente. Adesso che si è fatto più grande ogni tanto si ribella. L’ultima volta è successo a Napoli. I tifosi lo insultavano perché è nero. All’inizio non ha detto niente. Poi quando ha fatto gol è andato dove c’erano i tifosi e gli ha fatto un gesto per fargli capire di cosa era capace. La squadra di mio figlio, l’Inter, è molto attenta a queste cose. Ma alla fine Kevin se ne frega e va avanti con la sua vita.
Queste cose succedevano anche quando giocava il padre di Kevin?
«Sono sempre successe. Ognuno reagisce a modo suo a seconda del temperamento. Molti attaccano Mario Balotelli per le cose che dice. Ma quando uno è sottoposto a certe pressioni alla fine non ce la fa più».