Yatma Diallo ha 49 anni, ed è nato a Thiès, in Senegal. Nel 1994 ha acquistato un visto per il Benelux, per poi scoprire – quando era già sull’aereo, dice – che quello non gli avrebbe permesso di lavorare. Se ora, insieme alla moglie, Monica Maria Fumagalli, fa il maestro di tango, fino a qualche tempo lavorava come capo tecnico broadcasting («In Italia questi doppi profili non vengono capiti, tengo i due mondi separati»).

Durante un corso che teneva come capo tecnico broadcasting, ha incrociato il regista Christian Noukpo e insieme stanno pensando di girare un film documentario sulla sua vita e sul suo sogno: arrivare ai Mondiali di tango a cui, come ha subito specificato, l’Africa non ha mai partecipato.

Come ha iniziato a ballare il tango?

«Nel 2012 avevo una fidanzata, Gabriella Galli, che insegnava tango ambrosiano: è quasi liscio e la cosa non mi interessava. Un giorno, avevano un saggio di danza in piazza, a Gorgonzola, e per la prima volta li ho visti ballare. Non lo avevo mai visto prima: l’unico mio riferimento sul tango era la canzone di Youssou N’Dour che ne parla».

Dopo lo spettacolo sono andato dai ballerini e ho chiesto se si potesse imparare. Mi hanno risposto che dovevo andare a scuola. Allora ho chiesto se ci fossero neri come me a ballarlo. E mi è stato risposto che no, non ce n’erano. A quel punto mi sono impuntato, perché sono una testina per natura.

Era la sua prima esperienza con il ballo?

«Io ballo da quando avevo dodici anni, dove sono cresciuto avevamo un corpo di coreografia di quattro persone e ballavamo Michael Jackson, per cui impazzivamo. In un giornale che facevamo arrivare dall’Europa avevamo trovato un poster dei Guns N’ Roses, e da lì avevamo preso ispirazione per il nome: ci chiamavamo Rose Guns. Invece i miei parenti, la mia famiglia, ascoltavano e ballavano la salsa».

Come si passa dal funk al tango?

«A Milano ho iniziato ad andare allo Zimba, anche se la maggior parte del mio tempo lo passavo al Bataclan, dove si ballava l’hip hop. Poteva nevicare, esserci tempesta: io ci andavo comunque. Poi un giorno, come tecnico del suono, ho fatto un concerto nella Galleria Meravigli per un gruppo di salsa: finito l’allestimento, mi hanno trascinato sulla pista e un dj mi si è avvicinato, chiedendomi di andare al Rolling Stone».

Al Rolling Stone nessuno voleva ballare con me. Con perseveranza e testardaggine ho imparato a ballare la salsa da solo: guardando e imitando gli altri ho imparato i passi. Facevo il cablatore e dormivo davanti al lavoro perché non avevo il tempo di passare da casa, ma riuscivo ad andare a ballare sette sere su sette.

E allora ha fatto un corso?

«Dopo aver visto lo spettacolo a Gorgonzola, mi sono messo a cercare il corso di tango. Una sera, un mio amico mi ha presentato Monica, che insegnava al Latin Gem. All’epoca avevo gli orecchini, portavo i capelli afro, mettevo i pantaloni con le frange ed ero 10 chili in più. Mi sono presentato così, mi hanno indicato la sala e affacciandomi ho visto i ballerini di tango davanti allo specchio. Ho chiuso la porta e stavo per andarmene, quando Monica mi ha chiamato. Sono entrato, ho fatto quell’unica lezione e poi ho iniziato a uscire con lei».

E quindi come è diventato un milonguero?

«Tutte le sere la accompagnavo al Caffè Caribe di via Procaccini, dove faceva lezione. Un giorno mi siedo sul divano e vedo che mi passa davanti, abbracciata a un altro uomo e con gli occhi chiusi e mi dico “È vero che ci sono tanti pregiudizi sul maschio africano, musulmano. Ma tu sei emancipato, devi razionalizzare”».

Tutte le sere l’accompagnavo e mi rodeva. Sono andato avanti così per un paio d’anni. Rimanevo seduto e guardavo le lezioni, seguendo i passi e mi chiedevo dove fosse la difficoltà: ti dicono muovi il piede destro, muovi il piede destro. Andavo in bagno a provarli, ho fatto così per un paio d’anni.

Perché chiudersi in bagno e non fare direttamente lezione con gli altri?

«Una decina di anni fa un ragazzo nero che ballava il tango era impensabile. (Qui il tono di Diallo cambia, ndr) Quando sono arrivato in Italia nessuno si sedeva accanto a me sul tram, abitavamo in diciassette in una casa. Ma la parte dell’immigrazione è tutto un capitolo a sé, che non mi interessa raccontarle oggi. Ho imparato guardando e andando a provare da solo. Fino a quando l’assistente di Monica ha lasciato il lavoro, e lei mi ha chiesto di farle da partner nel far vedere i passi. Il fuori programma è stato che mi sono appassionato, ho scoperto di essere portato. Solo in questi ultimi due anni ho raggiunto la consapevolezza di essere diventato bravo».

E quindi adesso punta i Mondiali.

«Voglio restituire al posto da dove vengo qualcosa, ho fatto il tecnico anche ad alti livelli e mi sono sempre presentato non come senegalese ma come africano – anche se gli altri non mi sentivano, tante volte».

Perché?

«Perché esiste un’identità panafricanista. Vuol dire avere una visione un po’ più vasta della nostra isoletta padana, per dire. In cui mi ci metto anche io, non è dispregiativo. Coltivo l’orgoglio di essere africano, ma non quello per la bandiera. Quello che faccio, anche i Mondiali di tango se supererò le selezioni, lo faccio prima di tutto per me – perché bisogna essere onesti – ma pure per ciò che sono. Anche se io mi sento già arrivato: non c’è n’è un altro come me, non ho niente da dimostrare».

Foto: Erica Fadini