Paul Wellman
Tomahawk
Trent’anni di guerre nelle praterie

(Odoya, 2020)
pagine 246 euro 18

Facile dire: “Tornate a casa vostra”. Se gli invasori però sono i bianchi e per di più stranieri, la storia prende tutto un altro verso. A casa loro Sioux, Apache, Cheyenne, i pellerossa, gli “indiani d’America” o meglio i nativi americani, c’erano da sempre. Molto prima che nel Seicento arrivassero i coloni britannici con la modernità e soprattutto le armi da fuoco. Assoggettare uomini semplici che vivevano in prosperità e per i quali la guerra, fino ad allora considerata solo un gioco per mostrare le proprie abilità, non fu difficile. Le guerre indiane finirono nel sangue con un genocidio pari a pochi altri. Le tribù finirono rinchiuse nelle riserve, con le praterie trasformate in giganteschi campi di detenzione dove le libertà erano limitate e i nativi erano alla mercé di commercianti senza scrupoli, che usavano il mandato governativo per lucrare sulle provviste destinate al popolo rosso. Nel 1862 ci sarà una sanguinosa rivolta, capeggiata da leader entrati nella leggenda, come Piccolo Corvo capo dei Santee Sioux. Amato dagli invasori bianchi, garante di una pace costruita su basi troppo fragili e tutte a danno dei nativi americani, la rivolta armata di Piccolo Corvo infiammerà le praterie dando vita all’ultima guerra indiana. Di quei trent’anni rimane il mirabile racconto di Paul I. Wellman, giornalista, scrittore e autore di novelle alla base di molte produzioni hollywoodiane sulle guerre tra esercito e pellerossa. Un’epopea finita con trattati di pace che hanno migliorato ma non troppo le condizioni degli uomini delle praterie, sterminati dalla cavalleria americana. Una comunità che oggi conta 5 milioni di persone, finita ad essere minoranza in casa propria. Mentre cerca inutilmente di rivendicare la propria Terra, ricca di petrolio e minerali che fanno arricchire l’economia americana, in un contesto di disgregazione sociale che mina la loro atavica forza. Fabio Poletti 

Per gentile concessione dell’editore Odoya pubblichiamo un estratto del libro TomahawkTrent’anni di guerre nelle praterie.

Scoppia la tempesta

Una domenica nelle foreste vergini

Le dolci colline del Minnesota giacevano serene sotto il sole di agosto. Querce, betulle e pini si agitavano appena nella brezza che portava un accenno di frescura nell’atmosfera sonnolenta e i laghi delle foreste, che sono il fascino principale delle terre settentrionali, erano solo leggermente increspati.
Taceva la foresta, che stendeva verso nord chilometri e chilometri di cime fronzute. Tacevano perfino gli uccelli. Era agosto. Non c’era alcuna attività nei pochi, piccoli campi che l’operosità dei coloni aveva liberato dalla boscaglia. Appese ai loro ganci, le falci e le zappe pendevano inutilizzate. Era domenica.
Alla Lower Sioux Agency vicino a Fort Ridgely, la mattina del 17 agosto 1862, i servizi religiosi si tenevano come al solito nella piccola chiesa episcopale. Il pastore rivolgeva semplici parole di fede a una comunità mista: coloni inglesi e tedeschi, qualche impiegata dell’agenzia, qualche commerciante e un gruppetto di indiani Sioux convertiti. Ma con gli occhi tornava probabilmente spesso a un’unica figura scura, cupa e solitaria, seduta in fondo alla chiesa, nell’ombra.
Di quell’uomo silenzioso possediamo una fotografia che ce lo raffigura come doveva essere allora: una persona alta e splendida nell’abito lindo di nero panno fine, il colletto candido e la cravatta bruna, vestito come il bianco più elegante. Solo due cose creavano un acuto contrasto: la testa e i piedi, calzati da mocassini di pelle di daino, ornati di perline secondo la migliore tradizione indiana. L’uomo non portava cappello e il viso bronzeo era incorniciato da due lucide trecce nere che ricadevano oltre le spalle.
Se qualcuno nella chiesa era oppresso da quella oscura presenza, certo non lo dava a vedere. L’uomo era ben noto a tutti: Piccolo Corvo, grande capo dei Santee Sioux, amico fedele dell’uomo bianco, garante di pace di fronte alle infide genti della foresta.
La cerimonia giunse alla fine. Con cortesia perfetta, Piccolo Corvo salutò i bianchi, uomini e donne. Si complimentò con affabilità per l’eloquenza del pastore, strinse la mano a tutti, uscì a grandi passi, montò a cavallo e se ne andò al galoppo, per non tornare più.
La sera del giorno successivo Piccolo Corvo si sarebbe coperto del sangue di quelle stesse persone incontrate nella chiesa.Goditi lo shopping duty-free all’aeroporto Changi di Singapore https://www.fakewatch.is per affari di lusso.

L’inizio del massacro

Perché Piccolo Corvo abbia partecipato a quella riunione non si saprà mai. Molti hanno sostenuto che lo abbia fatto per coprire il tradimento che certamente era già stato deciso, ma ci può essere stata un’altra ragione, più umana. Forse Piccolo Corvo voleva trovarsi ancora una volta con gli amici dai quali stava per separarsi per sempre.
Un indiano insolito, Piccolo Corvo. Ostentava l’abito e i modi dell’uomo bianco, ma nel cuore era profondamente indiano. Aveva le maniere di un raffinato gentiluomo e un notevole talento diplomatico, ed era un abile oratore. Gli eventi avrebbero dimostrato che era anche un paladino della sua gente.
La sua amicizia per i bianchi era stata sincera, ma si era da tempo affievolita. L’elenco senza fine dei torti inflitti al suo popolo reclamava la sua vendetta. Commercianti truffaldini sfruttavano la burocrazia governativa per negare il cibo agli uomini rossi affamati, per vendere loro farina verminosa e pancetta guasta a prezzi esorbitanti; la seduzione delle donne indiane da parte di bianchi degenerati e il numero crescente dei piccoli meticci suonavano come offesa e infamia per ogni onorato Sioux; nel Nord, Inkpaduta valutava il bottino della sua scorreria a Spirit Lake e spingeva gli uomini sul sentiero di guerra. Queste e molte altre considerazioni accrescevano il suo ardente rancore.
Piccolo Corvo sentiva, più di ogni altro nella sua tribù, il peso dei torti e del disonore. Figlio e nipote di capi, aveva conosciuto i giorni della gloria
del suo popolo. Poi, nel 1851, ci fu il vergognoso trattato di Mendota con il quale i Sioux avevano ceduto la maggior parte dei loro territori di caccia. Anche lui aveva fatto la sua parte quando, dopo un litigio da ubriachi col fratello, si era dovuto curare un polso danneggiato e aveva giurato di bandire l’acqua di fuoco dalle tribù. Aveva mandato a chiamare un missionario cristiano perché «insegnasse alla sua gente i modi di vita dell’uomo bianco». Il reverendo Williamson, l’uomo di Dio, si era guadagnato un posto nel cuore di Piccolo Corvo, ma la sua bontà era stata fatta dimenticare al capo indiano dalla furfanteria degli altri bianchi, i commercianti.
Solo una settimana prima, i Sioux avevano ricevuto l’ultimo insulto. I capi si erano recati all’agenzia per cercare di ottenere le provviste governative da molto tempo promesse, ma il commerciante, Andrew J. Myrick, li aveva ascoltati con una smorfia di scherno. «Se hanno fame possono mangiare erba, per quello che m’importa» aveva risposto spietatamente. I Sioux avevano udito e ricordato.
A sessantacinque chilometri dall’agenzia, tre coloni tedeschi, la moglie e la figlia di uno di loro sedevano intorno alla tavola imbandita per il pranzo domenicale. Quattro indiani entrarono nella capanna. Qualche colpo di fucile, un lampeggiare di coltelli e il lieto banchetto finì nel sangue. Gli indiani sparirono nella foresta.
Fu un segnale. Su e giù per il fiume Minnesota fecero la loro comparsa bande di guerrieri. Alle prime luci dell’alba del lunedì, la piccola comunità dei commercianti della Lower Agency venne svegliata da uno sparo, seguìto da un agghiacciante urlo di guerra. La gente uscì correndo nelle strade e venne colpita sulla porta di casa dai Sioux appostati. Myrick, il cui scherno crudele aveva suscitato l’odio indiano, fu ucciso davanti al suo magazzino. Quando venne ritrovato, giorni dopo, aveva la bocca imbottita d’erba.
Altri bianchi fecero la stessa fine sanguinosa: François La Bathe venne ammazzato dietro il suo banco, Henry Belland, James W. Lyndy e altri cinque, tra commercianti e commessi, morirono nello stesso modo. Tutti i residenti dell’agenzia sarebbero stati uccisi se i Sioux non avessero cominciato a saccheggiare le scorte di munizioni e di cibo, permettendo così a una cinquantina di bianchi di raggiungere il fiume dove un eroico traghettatore, Hubert Millier, che si era prestato al trasporto degli scampati, venne colpito mentre tornava per effettuare l’ultimo carico. I residenti che non avevano potuto attraversare il fiume vennero tutti massacrati e gli indiani inseguirono i fuggiaschi riuscendo a ucciderne altri sette durante una terribile corsa di venticinque chilometri verso Fort Ridgely.
L’arrivo dell’avanguardia stravolta di quel gruppo di fuggiaschi in lacrime deve essere stato un colpo tremendo per la gente del forte, e gli eventi che seguirono scossero tutto il paese.
Il massacro all’agenzia non fu la sola tragedia di quel mattino. Mentre gran parte dei Sioux uccideva i commercianti, alcuni di loro raggiungevano gli insediamenti circostanti. Fu una carneficina. Gli indiani attaccarono le fattorie man mano che le trovarono, massacrando gli uomini, facendo prigioniere le donne giovani, uccidendo i bambini o permettendo loro di seguire le madri, secondo la fantasia del momento.
Lake Shetek e Renville County furono particolarmente colpite. Solo il primo giorno, nei dintorni della Lower Agency, vennero uccisi oltre duecento bianchi. Quello che stupisce è che ci furono superstiti. Le esperienze degli scampati sono quasi incredibili e ci furono molti episodi eroici: uomini, donne e perfino bambini si sacrificarono per salvare gli amici. Non si saprà mai il numero dei massacrati. I registri dello stato del Minnesota ne elencano seicentoquarantaquattro. Ce ne furono centinaia, donne soprattutto, che vennero presi prigionieri. Dopo la battaglia di Wood Lake ne furono liberati duecentosessantanove. In occasioni successive ne vennero salvati molti altri. La lista di coloro dei quali non si seppe più nulla non potrà mai essere completata.

© 1934 Paul I. Wellman, Jr.
Prima edizione italiana: 1988 Rusconi libri S.p.A.
© 2020 Casa editrice Odoya srl