Sabrina Onana, 21 anni, è una ragazza italocamerunese di Napoli, che vive da 5 anni a Parigi, dove studia Sociologia alla Sorbona. Nel 2018 ha deciso di girare un reportage sull’essere una seconda generazione in Italia. L’abbiamo intervistata a Milano dove ha presentato il documentario Crossing the color line, nel quale gli afroitaliani che ha incontrato parlano di identità, discriminazioni e cittadinanza. Un coro di voci che racconta il proprio vissuto in un periodo storico nel quale spesso, pur essendo soggetti della narrazione, il loro parere sulla questione non è neppure richiesto.

Cosa l’ha spinta a girare questo documentario?

«Ho deciso di girare questo documentario nel 2018 dopo il risultato delle elezioni politiche italiane quando, per la prima volta, mi sono resa conto di non aver mai sentito parlare di ius soli. Fino ad allora il problema della cittadinanza non mi aveva riguardato direttamente dato che, in quanto figlia di madre italiana, ho sempre avuto la cittadinanza italiana».

Cosa ha deciso di fare?

«Ho iniziato quindi a fare delle ricerche, ho realizzato che l’argomento mi colpiva molto e che in Italia non c’era un dialogo costruttivo rispetto alle questioni legate al razzismo. Di conseguenza ho pensato che fosse importante dare la parola a questi ragazzi e creare uno spazio nel quale si potessero esprimere liberamente, permettendogli di riappropriarsi della loro narrazione».

Quando è iniziato il suo progetto? 

«Nel luglio 2018, quando mi trovavo già a Parigi, sono venuta in Italia e ho postato un annuncio sui social per trovare i cosiddetti “ragazzi di seconda generazione” interessati a raccontarsi davanti al mio obiettivo. All’inizio non era un progetto che riguardava solo gli afrodiscendenti, ma poi lo è diventato perché ho capito le dinamiche di esclusione e discriminazione. In più gli afrodiscendenti portano lo stigma dell’immigrazione sulla loro pelle e sono sempre esposti allo sguardo delle persone».

In questi cinque anni a Parigi ha trovato delle differenze fra i ragazzi afroitaliani e afrofrancesi nel modo in cui si raccontano?

«Gli afrodiscendenti francesi vivono in una Paese postcoloniale, dove l’eredità del colonialismo è molto presente e ne sono più consapevoli. Esiste anche una continuità tra i Paesi di origine dei loro genitori e la Francia, di tipo linguistico ad esempio. Inoltre penso che in Francia esista una vera segregazione spaziale, nelle banlieue, che ha permesso agli afrodiscendenti di creare dei codici culturali, linguistici in cui riescono ad identificarsi».

Questo invece non succede in Italia dove la maggior parte degli afrodiscendenti sono costretti a identificarsi con l’unico modello che c’è, quello maggioritario bianco. Crescono quindi in una contraddizione permanente, non essendo riusciti a creare un’esperienza collettiva, quella che adesso inizia a essere chiamata afroitalianità. Insomma ognuno cerca una categoria attraverso la quale esprimere cosa vuol dire essere italiani e neri. Ma le diversità sono tante. 

Ci faccia qualche esempio.

«Ad esempio quando a molti afrodiscendenti nati in Francia viene chiesto se si sentono francesi, non rispondono con la stessa facilità con cui un afroitaliano dice di sentirsi italiano. Un afrofrancese magari non dice “sì, sono francese”, ma sente un legame molto forte con il quartiere nel quale è cresciuto perché è un luogo in cui è riuscito a costruire una familiarità. Infine un’altra grande differenza tra gli afrodiscendenti italiani e francesi è che i primi non hanno una tradizione letteraria filosofica di attivismo come i secondi, che possono leggere e identificarsi con i testi  degli autori della négritude, di Frantz Fanon o di Cheikh Diop». 

Perché una persona non vicina ai temi delle seconde generazioni dovrebbe guardare Crossing the color line?

«Secondo me in Italia c’è un problema di ascolto e di comprensione, quindi se si ha la volontà di capire, bisogna ascoltare l’altro invece di parlare al posto suo o volergli spiegare il senso di quello che vive. Le persone che non sono toccate da queste tematiche dovrebbero lavorare per normalizzare l’immagine delle persone nere in Italia, perché se hanno un’immagine che corrisponde ad uno stereotipo difficilmente potranno avere un rapporto che non sia di dominazione nelle interazioni che avranno con gli afrodiscendenti. E questo semplicemente per ignoranza».

Le è capitato?

«Mi è capitato che una donna mi chiedesse cosa è lecito chiedere a un nero e cosa no. Penso che bisognerebbe accettare che una persona ti dica cosa puoi fare e cosa no a seconda della sua sensibilità e non della tua. Il modo in cui ti poni lo costringe a rientrare nel tuo di script e questo è un problema».