C’è chi – peraltro senza apparente ironia – ha tirato in mezzo Parasite (“Questo è l’anno dell’Asia”), mentre qualcun altro ha riesumato un (ben più pertinente) Sognando Beckham.

La verità è che Never Have I Ever (Non ho mai…), diretto da Mindy Kaling (autrice tv del momento, che ha firmato The Office e The Mindy Project), è una serie che vanta ben pochi precedenti cui fare riferimento. La giovane protagonista, Devi Vishwakumar, accompagnandoci nella sua quotidianità di studentessa californiana di origini indiane, ci racconta tutto quanto non è ancora avvenuto nella sua vita.

Non ho mai fatto sesso, Non mi sono mai ubriacata, Non mi sono mai sentita troppo indiana, Non ho mai fatto arrabbiare tutti quelli che conosco, snocciola, puntata dopo puntata.

Devi, con le migliori amiche, mentre gira un video “social”

Come hanno potuto premesse tanto scontate (giovane nerd reduce da un dramma familiare, accompagnata da amiche genialmente sfigate, s’innamora del bello ma irraggiungibile e inanella una quantità di figure tali da bannare socialmente qualsiasi adolescente al mondo) rendere Never Have I Ever la serie streaming più discussa e vista degli Usa in piena pandemia, quando l’unica certezza delle serate in quarantena è assicurarsi qualcosa di buono su Netflix?

Il gruppo dei “fighi” della scuola

La risposta è nel titolo: Non ho mai. Non abbiamo mai visto una serie tv per adolescenti nella quale quasi tutti i protagonisti siano di seconda generazione o con background migratorio – gruppo dei “fighi della scuola” compreso. Non abbiamo mai visto il protagonista maschile avere nonni giapponesi, pessimi voti a scuola e una predilezione per il nuoto, ma anche una sorellina (adottata) alta, bionda, ironica, con sindrome di Down e appassionata di moda. Non abbiamo mai visto una giovane asiatica andare da una psicologa, che peraltro è nera ed è l’unica in grado di tenere testa all’ego vacillante della ragazzina. Non abbiamo mai visto un padre indiano divertente, brillante e completamente dedicato non al lavoro, ma a moglie e figlia. Non abbiamo (quasi) mai visto una coprotagonista afroamericana gay affrontare il suo outing in una paludata famiglia liberal-chic. Non avevamo neppure mai sentito descrivere Los Angeles, per spaventare una giovane attratta dalla sua vita notturna, come «La città di Charles Manson e Harvey Weinstein».

Certo, era solo una questione di tempo
(e non solo per la battuta su Weinstein).
Ma quanto ancora ci sarebbe voluto?
E perché non era mai successo?

Nonostante gli scivoloni e una manciata di scene scontate, le dieci puntate scivolano via veloci. Alla fine, resta una domanda che vale la serie: se quanto ci descrive è un dato di fatto della nostra vita, come diavolo è possibile che non lo avessimo mai visto in tv, prima d’ora?