Benoît Cohen
Mohammad, mia madre e io
2020 SEM
pagine 256 euro 18
Si fa presto a dire accoglienza. Astrattamente tutti d’accordo. Ma poi, in concreto, dopo aver chiesto l’apertura dei porti, chi aprirebbe la porta di casa sua a un rifugiato o a un migrante? Il cineasta francese Benoît Cohen, democratico, progressista, illuminato, metteteci tutte le qualità che volete, lo ha sperimentato in famiglia. Un bel giorno sua madre Marie-France decide che parlare e basta, non è più sufficiente. Non lo dice nemmeno a suo figlio, si rivolge ad una ong che cerca sistemazioni dignitose per i migranti, si rende disponibile e un giorno arriva Mohammad, profugo afghano ventenne. Un giovane uomo spaurito, altro che minaccioso secondo i peggiori incubi di chi vive nella parte giusta del mondo.
Il libro alla fine è la storia di un triangolo. Dove all’ultimo vertice sta il cineasta francese, che combatte per ottenere la Green Card, il permesso permanente di residenza negli Stati Uniti, il Paese che ospita il più alto numero di migranti e rifugiati al mondo, retto da un Presidente che pensa solo a erigere muri. Ma allo stesso tempo deve combattere con sé stesso, abbattere i suoi muri mentali e cercare di accettare la madre così com’è anche se i suoi slanci di generosità non lo fanno dormire. A convincerlo sarà Mohammad, con i suoi vent’anni che valgono le mille vite di chiunque, con i suoi incubi che lo accompagneranno forse per tutta la vita, con gli occhi sbarrati per quel letto con un materasso troppo morbido, che lo accoglie in quelle prime notti in una villetta in centro a Parigi. Il materasso su cui tutti noi ci addormentiamo ogni notte, in pace con la nostra coscienza perché siamo dalla parte di chi vuole i porti aperti. Fabio Poletti
Per gentile concessione dell’autore Benoit Cohen e dell’editore SEM pubblichiamo un estratto del libro Mohammad, mia madre e io.
Ordinano un altro caffè. Mia madre è curiosa. Esiste un profilo-tipo di chi accoglie in casa? No, è molto variabile. E lei, come abbina le persone? Crea tre colonne su un foglio Excel: a destra i nomi dei rifugiati, a sinistra quelli di chi offre alloggio, tutti classificati secondo l’età, e nel mezzo, gli interessi di ciascuno. Poi abbina quelli che hanno più punti in comune.
Il profilo di Mohammad ha colpito Catherine in modo particolare. Il ragazzo ha la stessa età del suo ultimo figlio. Ha pensato che la sua passione per la moda e la sua curiosità intellettuale sarebbero state in sintonia con l’amore di mia madre per la letteratura e il cinema. Di solito cerca di abbinare persone della stessa età ed evita di mettere insieme donne sole e uomini celibi, ma in questo caso ha avuto la sensazione che lui avesse bisogno di una figura materna.
«Dove abita ora?»
«In un centro per giovani tossicodipendenti e disabili mentali, fuori Parigi.»
Quest’ultima informazione preoccupa mia madre. Informa Catherine della sua intenzione di alloggiare Mohammad per una settimana in un albergo, per poterlo conoscere meglio, prima di lasciarlo dormire in casa propria. La sua interlocutrice approva l’idea.
Le due donne s’intendono a meraviglia. Mia madre domanda a Catherine se le è già capitato di ospitare in casa propria uno dei migranti di cui si occupa.
«Io mi sono impegnata molto con l’associazione, ma mi considero troppo egoista per accogliere qualcuno sotto il mio tetto. Me ne vergogno un po’. Il mio ultimo figlio è appena uscito di casa, con mio marito siamo finalmente tranquilli e non abbiamo né l’energia, né il coraggio di ritrovarci di nuovo in tre. È vero che ho l’impressione di fare le cose a metà, mi colpevolizzo, ma ognuno fa quel che può. Io offro un poco del mio tempo, altri denaro o un alloggio. Molti lo fanno per avere la coscienza a posto, ma non importa. Assisto spesso alle riunioni tra le famiglie che accolgono, che condividono le loro esperienze. Nella maggior parte dei casi riconoscono che questa esperienza restituisce loro un’immagine positiva di sé, che si sentono valorizzati rispetto a chi li circonda. Meglio così.»
Mohammad entra nel caffè. Catherine gli fa cenno. Lui avanza lentamente verso le due donne, che gli sorridono. È spossato, ha paura, prova a non darlo a vedere. Non vuole più ritornare in quel posto, non vuole più dormire per strada, desidera solo un po’ di tenerezza, un po’ d’amore.
Le saluta cortesemente e chiede se può andare a lavarsi le mani.
Mia madre si aspettava di veder arrivare il comandante Massoud e si ritrova davanti a un giovane di una ventina d’anni, con un viso d’angelo, la pelle chiara, gli occhi leggermente a mandorla e i capelli corvini. Ha notato subito il suo piumino rosso e le Converse nuove di pacca. Lei è particolarmente sensibile alla scelta delle calzature delle persone. Tra qualcuno vestito in modo trasandato ma con belle scarpe e il contrario, preferirebbe sempre il primo.
Catherine interrompe le sue riflessioni.
«Ah sì, dimenticavo, l’associazione raccomanda di non fare troppe domande ai rifugiati sul loro passato, durante il primo incontro, per evitare di destabilizzarli.» Mohammad ritorna, stringe loro la mano e si siede di fronte a loro.
Mia madre prende la parola per prima. Si esprime con grande dolcezza, in un inglese molto accurato.
«Buongiorno Mohammad, mi chiamo Marie-France.» «Felice di conoscerla.»
«Allora, raccontami un po’ come sei arrivato fin qui.» Catherine le lancia un’occhiataccia. Mia madre le sorride.
Ha bisogno di sapere. Sta per accogliere uno sconosciuto in casa propria e non le importa nulla delle regole dell’associazione. Tra poco non ci sarà nessun altro tra Mohammad e lei.
Parlano per una decina di minuti, Mohammad racconta brevemente il suo percorso, con tono neutro. La sua collaborazione con l’esercito francese, poi l’inferno da quando è arrivato in Francia. Mia madre gli domanda cosa vuole fare adesso. Le risponde che la cosa più importante per lui sarebbe poter studiare e continuare con la musica. Certo dovrà lavorare per guadagnarsi da vivere, ma vuole assolutamente provare a entrare all’università.
«Quale università?»
«Vorrei studiare scienze politiche. Il mio sogno sarebbe entrare a Sciences Po.»
Mia madre sorride. È bello sognare.
Gli fa i complimenti per l’abbigliamento. Lui le confessa che quella è la sua passione segreta. Ha sempre amato i bei tessuti e i tagli perfetti.
«Di che cosa hai più bisogno oggi?»
«Ho bisogno di un posto dove poter lasciare le valigie, dormire e ritrovare la pace.»
«Sono pronta ad accoglierti, ma non esiste libertà senza denaro. Ti darò una camera e ti troverò anche un lavoro… Conto su di te perché tu non tradisca la mia fiducia.»
Gli occhi di Mohammad brillano. Non dice nulla, e guarda mia madre dritto negli occhi. Ripete lentamente, tra sé e sé, le quattro parole magiche: “Sono / Pronta / Ad / Accoglierti”. Cerca di rimanere calmo. Vorrebbe stringere forte Marie-France, abbracciare Catherine, ballare con il cameriere, urlare di gioia, correre nudo per il viale…
«Quando vuoi venire?»
«Il più presto possibile.»
«Vai a prendere le tue cose. Ti aspetto a casa.»
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