Giuseppe A. Samonà
La frontiera spaesata
Un viaggio alle porte dei Balcani
Exòrma Edizioni
pagine 164 euro 15,50
La via dei Balcani. Dopo quella del mare è la rotta più utilizzata dai migranti che dall’Africa Subsahariana cercano di entrare in Europa. Migrare ed essere al centro dei destini del mondo deve essere una vocazione per queste terre, ancora fuori dal radar del turismo di massa con qualche eccezione per la Croazia e le sue isole. Da qui prese il via il Primo conflitto mondiale, con la dichiarazione di guerra dell’Impero Austroungarico al Regno di Serbia dopo l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo nel 1914. Da queste terre l’esodo di Giuliani e Dalmati di lingua italiana dopo il Secondo conflitto mondiale e il controllo dell’area diventata Jugoslavia da parte del generale Tito. E ancora qui negli anni Novanta, alla fine della Cortina di ferro, il sanguinoso conflitto che portò alla dissoluzione della Jugoslavia e la nascita degli stati nazionali. Un territorio tornato centrale con le migrazioni di massa che bussano dai Balcani alle frontiere più a Nord di Italia, Austria e Ungheria. Un territorio di cui alla fine sappiamo quasi niente se non per le cronache. Ad accompagnarci in questo appassionato viaggio nella frontiera spaesata Giuseppe A. Samonà, docente di Storia delle religioni antiche, capace di raccontarci questi Paesi con lo sguardo rivolto a storia, architettura e cultura dei Balcani, così vicini e lontani, da cui ci separa molto più di un braccio di mare. Fabio Poletti
Per gentile concessione dell’autore Giuseppe A. Samonà e di Exòrma Edizioni pubblichiamo un estratto del libro La frontiera spaesata.
GIRAVOLTANTE SORPRENDENTE ZAGREB
Zagabria; o meglio appunto Zagreb, perché all’inverso di Lubiana il nome originale ti rimane più familiare – più adatto… – di quello italianizzato, che da nessuno sentirai più pronunciare nel prosieguo del viaggio. Zagreb, che dell’accogliente Lubiana ti appare come una sorprendente miniatura, o se vuoi, una sorella minore – cosa sapevamo infatti noi tutti della Croazia dentro, quella lontana dalle familiari coste estive, inondate di luce? Non la temevamo come l’inizio di un territorio omogeneamente, tenebrosamente ostile, guerresco? Zagreb, che poi finisce per esploderti fra le mani con una diversità, un misterioso senso di lontananza che insieme sgomenta – ma non come immaginavi, anche se un poco forse… – e innamora.
Sì, al tuo arrivo Zagreb ti sorprende, e ti culla, facendoti pensare singolarmente al mondo da cui sei partito – ancora e ancora l’inizio del viaggio: Trieste… – ma soprattutto all’accogliente capitale slovena che hai appena lasciato. Forse, perché anche qui le strade, le piazze, zampillano di giovani, di caffè, di locali, di colori, di musica, di gioiosa speranza di futuro, e anzi, con una sorta di candore, con un entusiasmo supplementare – Zagreb infatti è ancora più fuori, incomparabilmente più fuori, dalle rotte turistiche, più sconosciuta: sembra quasi popolata da un’umanità diversa, più fresca di quella che siamo abituati a vedere nella nostra vecchia Europa.
Forse, perché anche qui il terremoto, che non conosce frontiere, si è abbattuto sulla città sempre sul finire del XIX secolo – e anche qui la ricostruzione è stata fatta nei modi e nelle mode tipiche dell’Impero austroungarico dell’epoca, di cui la Croazia faceva parte, anche se, di nuovo, quegli architetti quegli urbanisti – l’austriaco Hermann Bollé, il croato Milan Lenuci sono i nomi che sentirai più spesso – sono meno leggendari in Europa dei loro omologhi lubianesi. Per altro, fra le due città ci sono solo un paio d’ore d’autobus, che sarebbero anche meno se non ci fosse di nuovo quella curiosa frontiera, e l’immagine della splendida Lubiana è ancora così vivida nelle tue retine che non riesci a scrollartela di dosso, ne rivedi i dettagli in altri dettagli – e ancora: vista una tale vicinanza, visto l’Impero in comune, non sarebbe più che ovvio che le due città si fossero scambiate uomini e idee?
Ma poi – prima giravolta – ecco che il profumo austroungarico assume a Zagreb sfumature sue proprie, tingendosi d’un ineffabile pizzicore di spezie, d’Oriente: non a caso la Croazia più che verso l’Austria, con cui non condivide frontiere, è sempre stata orientata in direzione dell’Ungheria, anche prima del grande Impero bicefalo (austro-appunto-ungarico…), il che l’ha inevitabilmente portata ad affrontarsi con l’altro grande Impero, l’Ottomano. Storia complessa, meticcia, la sua, di cui converrà ricordare almeno un elemento: alla fine del XV secolo il Sultano ha conquistato quasi l’intero Regno d’Ungheria, e una parte di quello di Croazia, che gli era associato, ma non i suoi territori occidentali, con Zagreb; gli Ottomani allora creano lungo quella frontiera una sorta di zona cuscinetto, popolandola di Valacchi e di Serbi; alcuni di loro passano poi dall’altra parte, appunto in Croazia, nel frattempo – cioè all’inizio del XVI secolo – entrata a far parte della monarchia asburgica; questa decide di tirar profitto della situazione con un’operazione in certo senso speculare a quella dei vicini-nemici: nascono così i confini militari, in croato vojna krajina, preistoria di quella Krajina, isola serba in territorio croato, che segnerà l’inizio delle ostilità fra Croazia e Serbia nella prima guerra degli anni Novanta.
Estraggo questa rapidissima sintesi da Vestiges d’empires, 1999, di Pierre Béhar, primo libro da mettere in lista per questo nuovo pezzo di viaggio.
Senso di déjà-vu con spaesamento, dunque, e da subito. Per dovunque e comunque tu arrivi, piazza Jelačić – o più precisamente Trg bana Josipa Jelačića – è per forza di cose e prima tappa e centro del tuo viaggio a Zagreb. L’atmosfera da sontuoso salotto ottocentesco, come mescolando i diversi stili che questo secolo ha saputo produrre sino ad agganciare i primi anni del secolo successivo, le facciate dei palazzi, i loro colori – quel giallino, il rosa, il rosso, il pallido verde – la solita statua che sono un po’ in disparte così mi si nota meglio, quella fontana bassa bassa ai margini anch’essa, ma verso l’angolo opposto, il pavimento di tiepido levigato selciato, il brusio dei tram che la lambiscono di lato, ti avvolgono come un abbraccio familiare.
Ma avvicinati alla Statua: l’uomo a cavallo non è come ti saresti aspettato un poeta, o un musicista, è appunto Josip Jelačić, ban – cioè viceré, o governatore – della Croazia nella prima metà del xix secolo, cioè sempre nell’universo asburgico. Il ban Jelačić è eroe alla Rashomon, o se preferisci pirandelliano: in Croazia – fatti un giro per i manuali scolastici, o anche le guide, nelle differenti lingue – gli fu eretta una statua equestre dopo la sua morte, nel 1859, per sottolineare il suo impegno, sia pur rimanendo nella prospettiva imperiale, nel tentare di modernizzare e rendere indipendente il suo paese, in particolare svincolandolo dall’Ungheria; in Austria lo si ricorda piuttosto come un cospiratore contro la magnifica Mitteleuropa; e in Ungheria come un traditore, che avrebbe operato contro la rivoluzione del 1848 – ma non basta: inizialmente la statua, con la punta della spada, avrebbe indicato proprio in direzione dell’Ungheria, a est; dopo il 1945 Tito, considerando Jelačić un pericoloso reazionario nazionalista, la fece rimuovere; infine, dopo l’indipendenza della Croazia, nel 1991 la statua viene recuperata e rimessa su, ma orientata più a sud: più che a Budapest guarderebbe a Belgrado… Ce lo hanno raccontato in due diverse occasioni dei ragazzi sui venticinque anni – che per inciso sembra, come nell’Iliade, l’età standard dei tuoi incontri –, uno anzi ha commentato che la spada più che Belgrado punta proprio la Krajina… È vero? non è vero? Poco importa, queste storie fanno parte del motore mitologico locale, forgiano la realtà; come la leggenda della fonte – che alimenta la fontana – da cui anticamente una giovane contadina avrebbe attinto dell’acqua, zagrabi, per un principe di ritorno da non si sa quale battaglia – e chi ne bevesse oggi non potrebbe che tornare… a Zagreb. Perché ecco, qui i giovani abitanti parlano volentieri, discutono, raccontano, e in un ottimo inglese, sono sorprendentemente cordiali, molto più disponibili per intenderci di quelli che s’incontrano sulle coste estive della Dalmazia: insomma, dissolvono, rovesciano il facile stereotipo del croato sgarbato-antipatico, che spesso si riportano indietro i vacanzieri marini, e confermano che se vuoi conoscere la gente, d’estate, devi evitarlo, il mare, e andare dentro.
Subito dietro, appollaiata, se ne sta la Città Vecchia, che è appunto Alta Città, Gornji Grad, nonché autentico centro di Zagreb, con nuove, sorprendenti, giravolte. Appollaiata, o meglio, appollaiate: perché i due quartieri in cui è suddivisa, Gradec e Kaptol, erano anticamente, sin dall’XI secolo, due città rivali, addossate su due giustapposte colline, e separate da un fiume: il suo letto – ricoperto solo alla fine del XIX secolo, la fontana attingerebbe ancora alle sue acque oramai sotterranee… – era l’attuale Tkalčićeva ulica, animata strada pedonale che da dietro la piazza sale su su verso nord; il Krvavi most – cioè non a caso il ponte di Sangue…, oramai una semplice strada – era il passaggio d’incontro e di scontro.
Insomma (possibile itinerario…). Esci dalla piazza, camminando in salita; attraversa il mercato Dolac che si trova alle sue spalle – sapori, odori, colori, dopo ricorderai soprattutto il rosso – magari sostando davanti alla chiesa di Santa Maria, che mescola gotico e barocco, sulla sinistra; poi piega verso destra, per arrivare nel cuore di Kaptol, alla cattedrale: dell’Assunzione della Santissima Vergine per gli uni, di Santo Stefano per gli altri. Iniziata romanica nel XII secolo, ma quasi subito, e prepotentemente, gotica, sembra appunto la sorella di Notre-Dame, e come questa è splendida ma anche – de gustibus… – molto puntuta, quasi irritante. Come questa, anche, è passata attraverso non poche distruzioni, guerre, incendi, terremoti – in ultimo quello, devastante, del 1880, con successivo riassetto per mano di Bollé, anche del circondario. Pur se diffidi delle punte, ammirane la maestosità, quelle guglie fin lassù, che quando sei sotto per scorgerle devi quasi cadere all’indietro; e i tesori interni: fra cui, un chiostro, un frammento d’affresco medievale, un trittico di Dürer… Ma avanti! attraverso la grande piazza antistante, e su verso nord per un’altra strada pedonale – piazza e strada si chiamano anch’esse Kaptol – passando accanto alla chiesa di San Francesco (sempre il gotico, e tocchi di barocco, sempre il terremoto di fine xix, con riassetto, e sempre quel colore giallo); più su ancora per convergere sulla sinistra e arrivare alla testa della via Tkalčićeva, e su anzi giù, magari proprio fino al ponte insanguinato, e di nuovo su per Radićeva, un gomito di strada, una rampa di scale, un’inusuale statua di san Giorgio a cavallo con ai piedi un ormai vinto e afflitto drago, o forse addirittura morto, che risale ai primi anni del XX secolo (è opera degli scultori austriaci Arthur Winder e Andreas Kompatscher), una porta, anzi la Porta – di Pietra, testimone di antiche difese, quando la città, anzi, le due città, si guardavano in cagnesco – e attraversandola ti ritrovi a Gradec. (Profumo di Medioevo, la Porta – ma verso l’alto, al di là – ma poi un incendio la distrusse nel XVIII secolo, lasciando tuttavia miracolosamente indenne al suo interno un dipinto della Vergine con il bambino, che oggi conserva una cappella…). E ora? Oh, perderti soprattutto devi, ora! perderti per i suoi vicoli, e poi sostare nelle luminose aperture…
Eccoti a piazza San Marco, con l’omonima chiesa bianca dall’inconfondibile tetto variopinto con su inscritti gli stemmi di Zagreb e dei Regni di Croazia, Dalmazia e Slavonia riuniti, cioè la base – insieme alla maggior parte dell’Istria – dell’attuale Croazia; subito oramai riconosci quell’itinerario di stili differenti, con prevalenza del gotico, anche per via del solito riassetto post-terremoto, e dentro potrai anche conoscere due opere di Ivan Meštrović, il Rodin croato: anche se, se non ti entusiasma Rodin… (comunque vedile!). Da un lato della piazza, perpendicolare alla chiesa anzi come affiancandola e superandola oltre la piazza stessa quasi la volesse proteggere – ti accorgi allora che la chiesa è decentrata verso l’indietro – c’è il Banski Dvori, l’antico palazzo del ban oggi sede del governo, il cui disegno segue le linee d’un molto sobrio barocco; dall’altro lato, sempre affiancando e superando, c’è il Sabor, il parlamento, dalle più violente forme neoclassiche. Sono quindi fra loro opposti, i due palazzi, eppure intimamente confusi nelle solite gradazioni di giallo delle rispettive facciate, che a seconda della luce a volte ti appare persino verde, o rosa, e uno dice ma che ci capono con la candida variopinta chiesa: ma… – prova a venirci al tramonto…
Eccoti (dopo aver errato su e giù, perdendoti, ci devi arrivare per caso) di fronte nell’omonima piazza alla bianchissima chiesa gesuita di Santa Caterina d’Alessandria, trionfo del barocco, che effettivamente ricorda – lo dicono tutti, con emozione – la chiesa del Gesù a Roma, ma il cui nitore severo che a tratti diventa anch’esso rosa (o è la luce del sole che gira?) ti farà pensare, se mai ci sei stato, a certe passeggiate fra Puebla e Oaxaca, in Messico. Raggiante di rosa è senz’altro – fra altre decorazioni – il gioioso altare all’interno, raffigurante la santa in mezzo ai filosofi, con un trompe-l’oeil che ti trasporta lontano, come fuori, e quando esci veramente ne hai ancora impregnato lo sguardo – e se ci arrivi al tramonto…
Eccoti sulla Torre Lotrščak… – ma prima ti sei perso ancora: stradine, altri tesori, musei, palazzi, colori, una chiesa ortodossa semi-nascosta, e su e giù, fino ad arrivare proprio alla passeggiata Strossmayer che cinge Gradec come se volesse impedirle di buttarsi di sotto, nelle braccia della Città Bassa (ora la vedi per la prima volta, ai tuoi piedi: ma dove arriva? ma quanto è grande?), e ancora su e giù, per raggiungere la sua estremità orientale, e poi indietro, cioè avanti, attraverso gli alberi, segui il corso del sole, ora è cammino ombroso di foresta, odore di castagne, ora è strada più larga, luminosa, e dal parapetto puoi vedere lontano, i tetti rossi delle case, qua e là chiazze di verde. (È importante ricordarti che Josip Juraj Strossmayer, vescovo e politico, fu come Jelačić, e più o meno nello stesso periodo, eroe dell’indipendenza croata, o più esattamente fautore di una federazione degli slavi del sud che tuttavia non abbandonasse l’Impero asburgico – e di nuovo, se percorri gli articoli di divulgazione che lo concernono attraverso le tue diverse lingue, soprattutto nella Rete, che propaga le idee come onde, ti colpisce l’eterogeneità della informazioni: era un illuminato cosmopolita? un acceso nazionalista? Rileggiti le pagine su Don Stipe, il prete panslavista de La miglior vita…) E anche fermati, e guarda: quella statua se ne sta placidamente accomodata in panchina, non può essere certo un eroe, un guerriero… Te lo immagini un eroe seduto? (Non da noi, almeno: nell’Iliade Achille se ne stava tranquillamente seduto a suonare la cetra…) È infatti Antun Gustav Matoš, saggista, narratore e poeta, considerato l’iniziatore delle moderne lettere croate, anche se non veramente zagabrese: nato nel 1873 a Tovarnik, nell’orientale Slavonia, arriva a Zagreb a due anni, con la famiglia, ma la lascia di nuovo appena ventenne, anche per sottrarsi all’arruolamento; i suoi anni artisticamente più fecondi si realizzano tra Belgrado, dove propriamente inizia il suo itinerario letterario, e Parigi dove sboccia definitivamente, con qualche passaggio a Vienna, Monaco e Ginevra. Amnistiato per la sua diserzione, nel 1908 torna finalmente a Zagreb, dove muore nel marzo 1914… Fa persino strano vederlo là, beatamente seduto con le gambe accavallate a contemplare la città, facendosene alfiere – alcuni addirittura lo agitano come simbolo della croaticità – lui che di fatto ne fu esiliato per la parte più creativa della sua esistenza, vissuta da artista vagabondo, a tratti maledetto, profondamente cosmopolita e francofilo, ammiratore di Baudelaire, Mérimée, Maupassant, e anche di Poe – e viene da chiedersi cosa avrebbe pensato, avverso come fu alle armi, della grande carneficina che doveva cominciare pochi mesi dopo la sua morte.
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