Pubblicato per la prima volta nel 1993, The Black Atlantic di Paul Gilroy, oggi editato in Italia da Meltemi che lo ha in catalogo da oltre vent’anni, è uno di quei testi fondamentali per ricostruire i connotati di un’identità nera nei suoi aspetti economici, sociali, politici e culturali. Paul Gilroy di origine guineiana per parte di madre, la scrittrice Beryl Agatha Answick, ha una cattedra di Sociology and African-American Studies alla Yale University ed è una delle voci principali dei Black British Cultural Studies. The Black Atlantic è un’appassionata riflessione sul dibattuto tema dell’identità nera. Il suo obiettivo è quello di delineare i contorni storici di una cultura nera transatlantica e delocalizzata, prodotta e riprodotta dalla circolazione intercontinentale di migranti, merci, idee, immagini e oggetti artistici, iniziata con la schiavitù. Perché non c’è lato dell’Atlantico che non sia caratterizzato da un’impronta nera datata nei secoli. A Ovest si affacciano le piantagioni di cotone dove gli schiavi africani hanno posto le basi per lo sviluppo economico che ha portato al capitalismo, forma perfetta di annientamento umano prima che economico, che contrappone sfruttatori (una moltitudine di bianchi) e sfruttati (neri quelli che pagano le peggiori conseguenze). A Est l’Africa nera che ha fornito manodopera e non solo. Cultura solida pure, pensiamo al jazz passato da forma di esclusivo intrattenimento per i bianchi a forma principale di autoaffermazione identitaria dei neri. In mezzo c’è l’oceano, ci sono i mari solcati dai migranti di ogni censo e riconoscibili nelle diverse forme di fame, destinati ad annegare o ad appagare la propria esistenza in terre più ospitali, dove il riconoscimento della loro forza intellettuale e materiale talvolta diventa merce di scambio per una perdita identitaria spesso irreversibile. Eppure nell’immaginario moderno e poi contemporaneo l’Atlantico è considerato il mare bianco che più bianco ci sia, eponimo di Occidente e della sua purezza. Quasi a voler affermare ogni volta una dualità artificiosa tra i bianchi che rappresentano la mente e i neri relegati solo ad un simbolismo corporeo. Fabio Poletti

Paul Gilroy
The Black Atlantic
L’identità nera tra modernità e doppia coscienza
traduzione di Miguel Mellino e Laura Barberi
Meltemi
pagine 190 euro 24

Per gentile concessione dell’autore Paul Gilroy e dell’editore Meltemi pubblichiamo un estratto dal libro The Black Atlantic

Il problema delle origini e dell’autenticità culturali, verso cui gli esempi sopra riportati ci indirizzano, persiste da tempo e ha assunto un’importanza crescente man mano che la cultura di massa ha acquisito nuove basi tecnologiche e la musica nera è diventata un fenomeno veramente globale. Tale questione ha raggiunto dimensioni sempre maggiori nel momento in cui espressioni originali, popolari e locali della cultura nera sono state identificate come autentiche e giudicate in modo positivo proprio per questo motivo, mentre successive manifestazioni emisferiche o globali delle stesse forme culturali sono state liquidate come non autentiche e quindi prive di valore culturale o estetico, in virtù della loro distanza (vera o presunta) da un punto di origine facilmente riconoscibile. Sulla copertina di The Death of Rhythm and Blues di Nelson George, Spike Lee, un esponente ben noto del protezionismo culturale, espone un’ovvia versione contemporanea di questi temi. “Ancora una volta Nelson George ha mostrato la correlazione diretta tra la musica dei neri e la loro condizione. È un peccato che più progrediamo come popolo, più la musica perde forza. Qual è la risposta?” (George 1988).
La frammentazione e la suddivisione della musica nera in una proliferazione crescente di stili e generi, che trasforma in un non senso questa opposizione polare tra progresso e disfacimento, ha anche contribuito a una situazione in cui l’autenticità si impone tra i creatori di musica come una questione complessa e amaramente dibattuta. Vale la pena citare qui la diatriba tra i trombettisti Wynton Marsalis e Miles Davis, ennesimo esempio di come questi conflitti possano venire caricati di significato politico. Marsalis sosteneva che il jazz offre un ricettacolo essenziale per valori più ampi della cultura nera, mentre Davis insisteva nel dare priorità alle irrequiete energie creative in grado di tenere sotto controllo i processi corrosivi di reificazione e di mercificazione. La dogmatica dignità di custode della “tradizione jazz” di Marsalis fu liquidata da Davis come un pastiche tecnicamente sofisticato e rassicurante di vecchi stili. Tale affermazione non intendeva mettere in discussione il fatto che la tradizione non fosse autentica, e quindi ricalcare a sua volta le critiche di Marsalis alla produzione “fusion” di Davis, ma piuttosto evidenziare il suo carattere anacronistico:
Perché si occupa tanto del passato? Un musicista del suo calibro dovrebbe solo aprire gli occhi e capire che è tutto finito. Il passato è morto. Il jazz è morto […]. Perché restare legati a quella vecchia merda? […]. Nessuno mi venga a dire com’era. […] Diavolo, io c’ero […] nessuno voleva ascoltarci quando suonavamo il jazz […]. Il jazz è morto, Dio lo maledica. È così, è finito! È andato, e non vale la pena imitare la merda (Kent 1986, pp. 22-23).
Esistono molte buone ragioni per le quali le culture nere hanno incontrato grande difficoltà nel capire che le dislocazioni e le trasformazioni celebrate dal lavoro di Davis dopo In a Silent Way sono inevitabili, e che i processi di sviluppo considerati dai conservatori come contaminazioni culturali possano in realtà portare a un arricchimento o a un rafforzamento. Gli effetti del razzismo di negare non solo la possibilità dell’esistenza di un’integrità culturale nera, ma anche la capacità dei neri di generare e riprodurre qualsiasi cosa abbia valore culturale sono chiaramente rilevanti in questo caso. Il luogo assegnato all’espressione culturale nera nella gerarchia della creatività generata da un funesto dualismo metafisico, che identifica i neri con il corpo e i bianchi con la mente, rappresenta qui un secondo fattore determinante. Ad ogni modo, al di là di questi problemi generali, c’è bisogno di progettare una cultura razziale stabile e coerente come mezzo per stabilire la legittimità politica del nazionalismo nero e le nozioni di particolarismo etnico sulle quali esso si basa. Possiamo dire che questa reazione difensiva nei confronti del razzismo ha ereditato dal discorso dell’oppressore la sua evidente inclina- zione per la medesimezza e per la simmetria. Il romanticismo europeo e il nazionalismo culturale contribuirono in modo diretto allo sviluppo del nazionalismo nero moderno. Questa influenza può essere ricondotta all’impatto che le teorie europee sulla nazionalità, la cultura e la civiltà ebbero sull’élite intellettuale africano-americana dall’inizio sino alla metà del diciannovesimo secolo, quando l’immagine di una nazione come accumulazione di unità familiari simmetriche fa una triste apparizione nel mezzo del dramma della costruzione dell’identità etnica. Il sostegno di Alexander Crummell alle opinioni di Lord Beaconsfield sull’importanza fondamentale della razza in quanto “chiave della storia” dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per gli analisti culturali contemporanei che vogliono assegnare agli artisti il compito di
purificare l’esclusività etnica del gruppo e che sono tentati di usare l’analogia della famiglia non solo per comprendere il significato della razza, ma anche per atteggiamenti piuttosto autoritari come questi:
Le razze, come le famiglie sono gli organismi e l’ordinanza di Dio; e il sentimento razziale, come quello familiare, è di origine divina. L’estinzione del sentimento razziale è possibile come l’estinzione di quello familiare. Di più, la razza è una famiglia. Il principio di continuità è imperioso nelle razze e nelle famiglie – come lo è nelle nazioni (Crummell 1891, p. 46).
Du Bois segnalò molto tempo fa che “la chiesa dei negri precede la casa dei negri” (Du Bois 1903, p. 139) e che tutti i richiami dell’Atlantico nero all’integrità della famiglia dovrebbero essere affrontati tenendo conto di questa saggia osservazione. Da questo punto di vista, la famiglia è qualcosa di più di un semplice mezzo per naturalizzare ed espellere dal tempo storico relazioni che dovrebbero essere viste invece come storiche e contingenti. Questo legame tra famiglia, riproduzione culturale ed etno-ermeneutica è stato eloquentemente descritto da Houston A. Baker Jr., l’autore- vole critico letterario africano-americano, che ha proposto il tropo della famiglia come mezzo per collocare e periodizzare l’intera storia della produzione culturale nera e, cosa ancora più importante, come una sorta di filtro interpretativo per tutti coloro che volessero accostarsi alle culture nere.

Titolo originale: The Black Atlantic. Modernity and Double Consciousness
© 2018, Paul Gilroy
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