Si. Può. Fare. Talvolta si deve. È necessario per non doversi mai vergognare, come racconta Luciano Scalettari, il visionario, uno dei, fondatore di ResQ People Saving People, l’associazione che gestisce una delle tante navi di ong che solcano il Mediterraneo del Sud per salvare i migranti e un po’anche noi. Scritto dal giornalista torinese Alessandro Rocca, questo ResQ pubblicato dalle edizioni People, è la cronaca di come un gruppo di volenterosi abbia deciso di comperare una nave, mettersi a fare gli armatori, andare per mare e salvare vite umane. Un gruppo di visionari, verrebbe da dire, gente che insegue un sogno, da ammirare e guardare un po’ così, come si fa con le persone strane che ci piacciono, cercando per una volta di essere meno diffidenti perché non si sa se siano pericolose. Ecco, persone pericolose è la definizione giusta visto che gli uomini e le donne di ResQ si sono messi di traverso a governi e ministri che davanti a un fenomno inarrestabile come l’arrivo in Europa di migranti a migliaia, pensano che basti chiudere una porta, o meglio un porto, per renderci “più sicuri”. La pericolosità della gente di ResQ fa bene al mondo, non solo ai disperati che si buttano in mare con un gommone, rischiando la vita perché non si può fare altro. Ma alla fine, le uniche cose che contano, sono le parole di Luciano Scalettari il presidente di ResQ People Saving People: «Siamo noi, italiani ed europei, che salviamo i migranti? Sì, certo. Ma non è vero che sono anche loro, i migranti, che salvano noi dal naufragio del senso di umanità e del diritto? Non è forse in quell’incontro in mezzo al Mediterraneo che la nostra umanità viene salvata? Non è proprio in quell’essere solidali con chi è nel pericolo che evitiamo il naufragio dei diritti, e non solo dei diritti – pur sacrosanti – dei migranti, ma dei diritti di tutti? Perché – diciamolo con forza – se un diritto non è di tutti diventa privilegio, come diceva Gino Strada. E quando un diritto viene negato a qualcuno, i diritti di tutti vengono lesi, incrinati, messi a rischio. Ecco, direi che People Saving People è palindromo, va nelle due direzioni. È interscambiabile. E io mi sento salvato ogni volta che la ResQ People fa salire a bordo un essere umano togliendolo dal pericolo. Lo ha già fatto 225 volte». Fabio Poletti Alessandro Rocca RESQ Storia di una nave e degli uomini e delle donne che la fecero 2022 People pagine 164 euro 15 ebook euro 8,99
Per gentile concessione dell’autore Alessandro Rocca e dell’editore People pubblichiamo un estratto dal libro RESQ. Luciano Scalettari sulla nascita del progetto Ma poi, come fa a venirti l’idea di comprare una nave? Non un gommone, non un motoscafo, ma una nave! Dove la trovi, una nave? Ci sono le concessionarie che hanno anche l’usato? O la cerchi su subito.it? Forse Luciano può chiarirci le idee, partendo dall’inizio, da quei quattro amici al bar. «Dove e quando è cominciato tutto? Qual è stata la scintilla che ha fatto sì che qualcuno dicesse “compriamo una nave”?» Era il 3 ottobre del 2018, quinto anniversario della strage di Lampedusa [il naufragio di un peschereccio lungo circa venti metri salpato dal porto libico di Misurata il 1o ottobre 2013, usato per il trasporto di migranti. Il 3 di ottobre, a poche miglia dal porto di Lampedusa, la barca si è rovesciata girando tre volte su stessa. Il naufragio ha provocato 368 morti accertati e circa 20 dispersi presunti. I superstiti sono stati 155, di cui 41 minori. Io e Giacomo Franceschini tornavamo da un incontro a Varese organizzato insieme a una piccola associazione locale, nAzione Umana. Una serata toccante, intensa. Oltre duecento persone, assiepate nell’auditorium di una scuola. Giacomo, da sempre operatore umanitario, sarà poi uno dei diciotto fondatori di ResQ, a lungo membro del Consiglio direttivo e responsabile del gruppo operativo. «Dobbiamo fare qualcosa» disse. Io guidavo. Mi voltai a guardarlo, senza capire: «Cioè?». «Dobbiamo mettere in mare una nave di ricerca e soccorso.» Già, così disse. Sgranai gli occhi. «Ma sei scemo?» gli risposi. «E come cavolo facciamo? Una nave? Dove li troviamo i soldi? E chi la gestisce?» Giacomo non faceva una piega, imperturbabile: «Ci pensiamo. Vediamo come fare. Ma non si può restare ancora impotenti di fronte a ciò che succede ogni giorno nel Mediterraneo». Non sapevamo ancora che proprio quel giorno partiva la prima missione di Mediterranea con la nave Mare Jonio, la prima imbarcazione italiana dedicata al salvataggio in mare. La nostra sarebbe diventata la seconda, insieme alle altre della flotta civile europea. Era un periodo difficile. Quello del “cattivismo” e dei procla-mati “porti chiusi”. Un tempo in cui si usava in modo particolarmente abietto l’arma dei migranti per fare propaganda politica. Cominciammo a pensarci, però. È persino banale, in questo caso, il proverbio “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”… Provammo a ideare una bozza di progetto e tentammo di sottoporla a una grossa Ong italiana. Che però ci rispose picche. Passò ancora qualche mese. Il problema era: da dove cominciare? Nella primavera del 2019 mi squillò il telefono. Giacomo. «Basta. Dobbiamo provare. Se le Ong italiane non sono disponibili, proviamoci noi.» La mia risposta fu uguale a quella della sera del 3 ottobre precedente: «Noi da soli? Peggio mi sento… È un’impresa pazzesca. Che facciamo, andiamo in concessionaria a comprare una nave?». «Magari resterà un sogno, ma almeno ci avremo provato.» Già. Almeno un giorno avremmo potuto dire ai nostri figli e nipoti che ci avevamo provato, quando ci avrebbero chiesto dove eravamo mentre morivano in mare migliaia e migliaia di persone come topi, lasciati a se stessi solo perché poveracci con la pelle di un altro colore e in tasca il passaporto sbagliato. E ci provammo. Eccome. Al primo incontro eravamo in sei: io, mia moglie Francesca Fabris, Giacomo, Maurizio D’Adda, Sarah Nocita e Matteo Fiorini. Non quattro, ma sei amici al bar. Poi una cena: eravamo diventati otto. Stesse domande, stessi occhi sgranati. Eppure, l’“infernale” meccanismo si era messo in moto. Amici ne parlavano ad amici, e questi ad altri ancora. All’inizio tutti milanesi, presto anche di altre città e regioni. In fretta arrivammo a diciotto, quegli stessi che il 19 dicembre 2019 andarono dal notaio Achille Vismara (sant’uomo!) per far nascere ResQ – People Saving People. C’erano ormai tutti coloro che diventeranno il nucleo storico dell’associazione, compresi Gherardo Colombo e Armando Spataro, i due ex magistrati e nomi più noti del cazzuto drappello della prima ora. Ci dicevamo da soli che era un’impresa disperata, al limite dell’impossibile. Ma il gruppo era davvero determinatissimo, al limite della cocciutaggine. A gennaio 2020 già si programmava l’uscita pubblica, l’annuncio del progetto: «Ci chiamiamo ResQ – People Saving People. Siamo società civile. Vogliamo comprare una nave e andare nel Mediterraneo centrale per mettere in salvo i migranti in pericolo». Questo volevamo dire, invece arrivò la pandemia. Lo sconcerto. La paralisi. Le riunioni online per capire se si poteva o no andare avanti, in quella situazione surreale. Già l’ho detto: cocciuti. Quindi «sì, si va avanti». Nessuno, ma proprio nessuno aveva in mente di abbandonare l’impresa. Nonostante il Covid, nonostante il lockdown e le zone rosse. Così l’annuncio pubblico è arrivato: a fine luglio 2020 con una conferenza stampa, in quel breve momento di tregua che ci aveva lasciato la pandemia. La risposta che ne è seguita è stata commovente: mille mail in pochi giorni, donazioni (non richieste) che piovevano da tutte le parti. C’era un pezzo d’Italia che non aspettava altro. Che voleva un’occasione e che non ci stava più a quello stillicidio di vite umane affogate nel Mare nostrum. La nave è stato un grande sogno. Per vergognarci un po’ di meno. Per reagire allo schifo di una politica fatta sulla pelle di esseri umani con appiccicata addosso l’etichetta di “migranti” o, peggio ancora, “clandestini”. © 2022 People s.r.l.