I nuovi schiavi hanno magliette colorate, pantaloncini sportivi e talvolta scarpette con i tacchetti. Arrivano dall’Africa e sognano grandi stadi. Il calcio come nuovo oppio dei popoli fa presa anche tra i giovani migranti che guardano al futuro attraverso le parabole televisive. Il mondo scintillante e assai fatuo dei campioni di calcio – quanti vengono dall’Africa! – è un catalizzatore formidabile. In un mondo dove i soldi girano a miliardi in euro, trovano spazio anche biechi sfruttatori delle aspirazioni e dei sogni di troppi ragazzini, abbagliati dalla rivalsa che si presenta sotto forma di un ingaggio in un grande club. Questo mercato parallelo gestito da schiavisti ha numeri da capogiro. Li mette nero su bianco in una nota a introduzione del suo libro Gigi Riva, scrittore e giornalista: «Almeno quindicimila ragazzi africani, stima per difetto l’ONG francese Foot Solidaire attiva dal 2000, arrivano ogni anno in Europa col sogno di diventare calciatori professionisti. Solo uno su mille ce la fa. A reclutarli, falsi procuratori o semplici truffatori che promettono loro provini con club blasonati in cambio di forti somme di denaro. Salvo poi abbandonarli al loro destino. Quella che segue è la storia romanzata, ma con elementi di verità, di una delle vittime di questa nuova forma di schiavitù». Fabio Poletti

Gigi Riva
Non dire addio ai sogni
2020 Mondadori
pagine 228 euro 18

Per gentile concessione dell’autore Gigi Riva e dell’editore Mondadori pubblichiamo un estratto del libro Non dire addio ai sogni.

Amadou è sull’aia che aspetta, la polvere della strada il segnale di fumo atteso. Ha addosso la maglia portafortuna con scritto “Mame”, gli sembra la più indicata se ne deve ripercorrere le tracce, per questo ha accantonato Dani Alves. Idrissa, al volante, scende per primo e gli dà un buffetto sulla guancia: «Ben altre divise potrai permetterti d’ora in poi», e gli stacca la “e” penzolante formata col nastro adesivo. George, più formale, gli stringe la mano come a un adulto e Amadou pensa che così deve funzionare in Francia, dove sono tutti dei gran signori.
Entrano, salutano i genitori, poi Awa scompare in cucina a preparare il tè. Si siedono. Boukary si mette con le mani conserte, appoggia la schiena alla sedia nella postura di chi si pone in ascolto.
Idrissa rompe gli indugi: «Sono un procuratore di calcio, lavoro per il signor George, giro il Senegal e non solo per reclutare futuri campioni. Vostro figlio l’ho studiato più volte. È un predestinato, coi piedi può fare quello che vuole. Ha un tesoro in casa, signor Gueye».
George si limita ad annuire, in attesa di entrare in scena con il colpo a sorpresa. Estrae dalla tasca un orologio, lo porge al padre: «Un regalo per lei, lo tenga, un segno di rispetto per l’onore che ci ha fatto nel riceverci nella vostra casa». Poi si gira lentamente, prende un pacco e lo dona alla mamma comparsa con le tazze fumanti: «E questo è per lei, signora». Dentro c’è un vestito colorato di quelli che si vedono solo nelle feste delle dame a Dakar. Infine ad Amadou porge un paio di scarpe da calcio bicolori, nere e gialle, e firma con le parole la sua dedica: «L’augurio per una carriera da campione».
Idrissa, come un efficiente vassallo, elenca i pregi di quel compare “tanto buono”, una manna dal cielo che ha mutato il destino suo e di tanti africani. Squaderna sul tavolo fotografie di George con Drogba, Eto’o, Yaya Touré, i gioielli del calcio del Continente nero. Anche con Messi e Cristiano Ronaldo, i campioni celebrati. Persino con Pelé e Maradona. Poi un patinato ufficio di Parigi, la sede della società dove George è vestito in completo blu sicuramente di un affermato stilista, e accanto a lui c’è Joseph Blatter, il capo della FIFA, prima di cadere in disgrazia. Amadou prende le immagini, un prodigio di Photoshop, quasi le ruba dal tavolo, incantato come se fosse in una favola.
Boukary è stordito. Awa è donna, dunque è terra e il suo buonsenso contadino le impone la prudenza: «Signor Idrissa, signor George, noi siamo gente umile e non capiamo molto delle cose del mondo. Il mio orizzonte è sempre stato il mio villaggio. E voi parlate di Parigi, dell’Europa, di un mondo di ricchi come lo vediamo alla televisione. Che c’entra il mio Amadou con tutto questo? Ha quattordici anni e sarà pure bravo come dite voi, però è troppo lungo questo passo, troppi i pericoli. E chi troppo vuole nulla stringe».
È bonario adesso George, persino comprensivo: «Ha ragione a dubitare, signora. Un figlio che parte è un dolore per il cuore di mamma. Ma se l’Africa si trova in questa situazione è perché non ha mai pensato in grande. Suo figlio, i vostri figli, bisognerà che prima o poi il mondo se ne accorga, sono esseri superiori. Sono fortificati dalle privazioni, dal dolore, dalle rinunce. Tutte cose che in Occidente non esistono più. Per questo hanno un vantaggio sui loro coetanei rammolliti, per questo emergono. Io sono solo il tramite che favorisce la loro ascesa».
Boukary allora si scuote, come capofamiglia deve prendere in pugno la situazione, compiacere i dubbi della moglie e nello stesso tempo afferrare il bastone del comando della discussione. Guarda fisso negli occhi George.
«Voi lavorate con quelli del Qatar?»
«Del Qatar?»
«Sì, quelli del Qatar che cercano i ragazzi per portarli a studiare nell’Accademia a Doha.»
«Ci sono molte accademie, signor Gueye. E molti procuratori. Alcuni anche falsi procuratori, che promettono e promettono e promettono ma non hanno i contatti giusti. Lei avrà visto quelle fotografie. Noi abbiamo entrature ai massimi livelli che ci danno una serie di opportunità. Abbiamo esperienza ormai più che ventennale. Idrissa, uno di voi, è l’ulteriore garanzia della nostra serietà. Siamo qui, ci mettiamo la faccia. Decida lei se può fidarsi.»
«Mmmm. Come funziona, in pratica, questa cosa?»
Il francese tira un lungo sospiro di sollievo: «Prima bisogna fare i documenti perché tutto sia in regola per l’espatrio, ma non dovete preoccuparvi, abbiamo buone conoscenze tra le autorità di Dakar e nella polizia. Poi si prende un aereo per la Francia. Io porterò Amadou a fare dei provini, a cominciare dal Marsiglia che mi sembra l’ambiente a lui più adatto».
«Il Marsiglia» interrompe il ragazzo, «la prima squadra di Mame!»
«Se non sarà Marsiglia» riprende George, «sarà il Montpellier, o il Nizza, o il Monaco. Punterei all’inizio sui club del Sud dove il clima è più mite, più adatto a chi arriva da un luogo che sta tra il deserto e i tropici. La squadra che lo sceglierà si occuperà di mandarlo a scuola, mantenerlo per vitto e alloggio, e gli farà un contratto. All’inizio saranno pochi soldi o forse molti per voi. Diciamo duemila euro al mese. Ma se diventerà forte, come io credo, quando sarà maggiorenne arriveranno i milioni. Di euro intendo.»
Dopo quelle cifre cala il silenzio. È Boukary che lo buca: «Ma voi cosa ci guadagnate? Non lo farete gratis!».
Il francese replica calmo: «No di certo. Vostro figlio è un tesoro per voi e, se permette, in piccola parte anche per me. Mi prendo il dieci per cento sui suoi contratti, se saranno modesti ci avrò perso, come quando si punta sul cavallo sbagliato. Se saranno ingenti, ne saremo felici tutti. Amadou per primo, voi, io, Idrissa. Pensateci con calma, noi torniamo fra qualche giorno». Quasi con noncuranza George estrae dal portafogli centocinquantamila franchi CFA, la moneta del Senegal, e li mette sul tavolo: «Questi sono per le vostre piccole spese». Con quei soldi, per rendere l’idea, Boukary potrebbe pagarsi una sessantina di pasti in un ristorante economico, sono come uno stipendio extra.
C’è una tecnica, Amadou l’avrebbe capito a posteriori, comune ai truffatori: dare qualcosa per guadagnarsi la fiducia, fornire prospettive (solo prospettive) fantastiche. E poi chiedere molto in cambio.

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