Facciamo tutti parte di una nazione perché sudditi dello stesso Stato o perché ne abitiamo i confini geografici? Il tema – quello dell’inclusività – è regolamentato da leggi che rispondono alla politica. Con qualche evidente stortura, mai sanata fonte di conflitti alla base di disuguaglianze. Sappiamo bene che nascere negli Stati Uniti, superando il confine anche un secondo prima di venire alla luce, senza alcuna limitazione dovuta al passaporto dei genitori, ci fa automaticamente diventare cittadini americani. Con gli stessi diritti di chi negli Usa ci vive da sempre. Ma i nativi americani, che in America sono nati prima di tutti, hanno meno diritti dei pronipoti dei coloni che dal 1492 in avanti, hanno calpestato il suolo americano stabilendosi poi in pianta stabile. Di questo rapporto tra coloni e colonizzati, si occupa lo spesso libro di Mahmood Mamdani Né coloni né nativi, pubblicato dall’editore Meltemi. Mahmood Mamdani, di origini ugandesi ma nazionalizzato indiano, è Herbert Lehman Professor of Government alla Columbia University. Dedito allo studio comparativo del colonialismo tra scienze politiche e antropologia, ha investigato tematiche quali la violenza estrema e il genocidio in contesti postcoloniali, la Guerra fredda e l’Islam politico, la storia e la teoria dei diritti umani e la politica di produzione della conoscenza. Alla fine della sua ricerca Mahmood Mamdani, partito dalle osservazioni sul Sud Africa post coloniale e post apartheid, è arrivato alla conclusione che vada garantita un solo tipo di cittadinanza sulla base della residenza piuttosto che dell’identità. In questa genealogia della modernità, Mahmood Mamdani sostiene che lo Stato-nazione e lo Stato coloniale si sono creati vicendevolmente. Dal Nuovo Mondo al Sudafrica, dalla Germania a Israele, fino al Sudan, gli Stati coloniali e gli Stati-nazione si sono costituiti sulla politicizzazione di una maggioranza religiosa o etnica e a spese delle minoranze. Perché come scrive Mahmood Mamdani: «La violenza della modernità postcoloniale rispecchia la violenza della modernità europea e del dominio diretto coloniale. La sua manifestazione principale è la pulizia etnica». Fabio PolettiMahmood MamdaniNé coloni né nativitraduzione di Claudio Feliziani2023 Meltemipagine 516 euro 25

Per gentile concessione dell’autore Mahmood Mamdani e dell’editore Meltemi pubblichiamo un estratto dal libro Né coloni né nativi. Come la teoria marxista, anche la teoria decoloniale coglie la decolonizzazione all’inverso. Io sostengo che non solo il politico precede il sociale, ma che il politico è intrecciato con l’epistemologico. La prima domanda da porre circa l’indipendenza non è “come distribuiamo la ricchezza?”, ma “a chi appartiene?”. Rispondere alla domanda di appartenenza in modo produttivo necessita la decolonizzazione del politico, che è un processo di re-immaginazione delle identità politiche come storicamente determinate piuttosto che naturali. La rivoluzione epistemologica è strettamente legata alla rivoluzione politica interna: non con l’eliminazione del dominio esterno, ma con l’eliminazione dell’ideologia della modernità politica interiorizzata sotto il colonialismo.Ciò richiede un ulteriore ripensamento della letteratura tradizionale sulla cittadinanza. Quella letteratura è fortemente influenzata da Thomas Humphrey Marshall, il cui lavoro definì la nazione in quanto comunità politica connessa allo Stato. Questa letteratura tende a sminuire il politico e racconta la storia dei diritti come uno sviluppo lineare. Il classico di Marshall del 1950, Cittadinanza e classe sociale, fornisce un resoconto storico della nascita di tre generazioni di diritti e giustizia: civile, politica e sociale. Per Marshall, queste sono venute a costituire il significato di cittadinanza nel corso di tre secoli, segnando l’alba dei diritti civili nel XVIII secolo, dei diritti politici nel XIX secolo e dei diritti sociali nel XX. Mentre Marshall si concentrò sulla questione di quali diritti avessero i cittadini, io sposto l’attenzione su un’altra domanda, di natura esplicitamente politica: “diritti per chi?”.Il mio progetto, quindi, è raccontare una nuova storia che storicizzi le identità politiche, che riconduco al processo di colonizzazione, in modo da storicizzare le categorie di razza e tribù su cui si fondano le identità nazionali. Non mi ero reso conto, quando ho iniziato la ricerca per questo libro, che avrei finito per concentrarmi su questa storia. Mi occupavo principalmente della giustizia all’indomani di violenze estreme. Ho scritto la prima bozza da questa prospettiva, cercando di distinguere fra tre dimensioni della giustizia: criminale, sociale e politica. Il mio obiettivo era pensare alla giustizia politica in termini più ampi di quelli della giustizia penale. Ho scritto articoli che affrontano questi problemi. Più scoprivo varianti della mia argomentazione e le condividevo con i colleghi, più loro mettevano alla prova le mie ipotesi. Il più insistente tra questi colleghi è stato Raef Zreik dell’Università di Tel Aviv, che mi ha gentilmente ricordato che la giustizia presuppone l’esistenza di una comunità politica. Così facendo, mi ha sfidato a teorizzare in modo più approfondito l’alternativa che stavo indicando.Sono arrivato a rendermi conto che dobbiamo ripensare non solo la giustizia, ma anche l’ordine politico in cui viene perseguita. Per ottenere giustizia per le vittime è necessario porre fine alle condizioni che le hanno consegnate a un trattamento ingiusto, e questo significa finalmente decolonizzare. Ottenere giustizia non è solo il progetto normativo di immaginare un mondo migliore, questo è il materiale della teoria politica tradizionale. Sì, dovremmo immaginare quel mondo migliore, ma realizzarlo significa anche comprendere la costruzione del mondo in cui viviamo, un mondo di minoranze permanenti, riprodotte attraverso la politicizzazione dell’identità sotto la struttura dello Stato-nazione. Il disfacimento della permanenza delle identità politiche inizia con il riconoscimento che esse non sono naturali e non sono per sempre. Sono state inventate dal potere e vengono rinforzate da coloro che le mobilitano nella corsa al potere. Se un numero sufficiente di persone riflette a fondo sulle conseguenze violente di queste lotte di potere identitarie, allora avrà l’intuizione di ripensare e rifare il mondo.Non pretendo di sapere esattamente a cosa potrà assomigliare il mondo che verrà. Decolonizzare la politica non è niente di meno che re-immaginare l’ordine dello Stato-nazione. Non ne posso prescrivere l’esito. Tuttavia, ho alcune raccomandazioni per arrivarci. In primo luogo, riformare la base nazionale dello Stato garantendo un solo tipo di cittadinanza e facendolo sulla base della residenza piuttosto che dell’identità. In secondo luogo, denazionalizzare gli Stati attraverso l’istituzione di strutture federali in cui l’autonomia locale permette alla diversità di crescere. Terzo, allentare la morsa dell’immaginazione nazionalista insegnando la storia dello Stato-nazione, contrapponendo il modello politico a quello criminale e rafforzando la democrazia al posto dei rimedi neoliberali sui diritti umani. I casi di studio in tutto il libro giustificano queste raccomandazioni e parlano sia della loro urgenza sia delle promesse che contengono. Sono un incorreggibile ottimista, dedito a privilegiare il futuro sul passato. Forse è per questo che credo che i nemici di sangue possano diventare avversari politici, dirimendo le loro differenze attraverso un processo politico piuttosto che sui campi di battaglia o nelle aule di tribunale. Forse è per questo che credo che aggressori e vittime possano vivere insieme come “sopravvissuti”. Non sono mai stato convinto che viviamo nell’incubo foucaultiano in cui il potere dà forma al soggetto, in modo produttivo, nel modo in cui ora lo ripetiamo all’infinito, e il soggetto replica il potere, non così produttivamente, potrei aggiungere. Non sono convinto che siamo come tante falene fatalmente attratte dalla candela, che ruotano attorno a essa finché non muoiono nelle sue fiamme, un tragico destino immortalato in una poesia urdu. Nella concezione foucaultiana, potere e conoscenza – a cos’altro serve? – producono insieme una chiusura. Ogni inizio è destinato a finire come una tragedia. Ogni tentativo di scrivere o fare qualcos’altro, qualcosa di nuovo, non produce altro che un’illusione romantica.Ma io non sono un romantico. Abbraccio l’intuizione foucaultiana, ma non la chiusura che indica. La logica del potere permea la agency, ma solo nel suo stadio formativo. La logica del potere informa i parametri entro i quali gli assoggettati si mobilitano e si organizzano, ma ancora una volta solo in prima istanza. Il potere della storia sudafricana è che ci offre più della proverbiale prima istanza. Ci fa intravedere un’altra possibilità, un oltre, un suggerimento che la relazione tra potere e agency non è né determinante né irrilevante, perché le identità sono create politicamente. Né la storia né l’identità devono essere permanenti e la decolonizzazione non deve essere un’illusione romantica.Titolo originale: Neither Settler nor Native. The Making and Unmaking of Permanent Minorities© 2020 Mahmood MamdaniPublished by arrangement with Roam Agency and Berla & Griffini Rights Agency© 2023 – Meltemi Press Srl