Questo libro andrebbe letto da chi pensa che i repubblichini devono essere ricordati, se non addirittura onorati, come i partigiani. Da chi crede che il 25 Aprle, anniversario della Liberazione, e il 28 Aprile, quando venne giustiziato Benito Mussolini, sono due giorni uguali come tanti. Da chi ancora non smette di portare una corona di fiori ai cippi che ricordano i morti tra le fila della Repubblica Sociale Italiana e a chi, pensando che sia un gesto quasi più goliardico che politico, incrocia gli avambracci nel simbolo della X Mas, una delle peggiori organizzazioni criminali nella storia della RSI. In questo libro di Amedeo Osti Guerrazzi, L’ultima guerra del fascismo, pubblicato da Carocci editore, sono ricostruiti i 19 mesi della Repubblica di Salò, epilogo sanguinoso della II Guerra Mondiale, quando i fascisti a guerra oramai persa, alleati dei nazisti, si macchiarono di ogni infamia possibile nel Nord Italia. Amedeo Osti Guerrazzi insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Padova. È autore di numerose pubblicazioni sul fascismo. I 19 mesi della Repubblica Sociale Italiana furono l’ultima incarnazione del fascismo, quella repubblicana, sicuramente la più violenta e la più sanguinosa. Nata con lo scopo di “tenere fede” all’alleanza con i tedeschi e di riscattare l’onore perduto con l’armistizio dell’8 settembre 1943, la RSI realizzò l’ultimo atto del regime: una guerra spietata contro i nemici interni ed esterni, ovvero i partigiani, gli antifascisti, gli ebrei, i dissidenti e gli oppositori che non aderirono al disperato tentativo di Mussolini di conservare il potere e di salvare il fascismo, anche a costo di scatenare una feroce guerra che coinvolse soprattutto i civili. Fabio Poletti
Amedeo Osti Guerrazzi
L’ultima guerra del fascismo
Storia della Repubblica Sociale Italiana
2024 Carocci Editore
pagine 276 euro 20,90
L’ultima guerra del fascismo
Storia della Repubblica Sociale Italiana
2024 Carocci Editore
pagine 276 euro 20,90
Per gentile concessione dell’autore Amedeo Osti Guerrazzi e dell’editore Carocci pubblichiamo un estratto dal libro L’ultima guerra del fascismo
Scioperi, borsa nera, aiuto agli ebrei e ai renitenti, solidarietà nei confronti della Resistenza e dell’antifascismo, erano diventati fenomeni di massa che le striminzite unità delle forze dell’ordine tradizionali del fascismo non erano in grado di fronteggiare. Per questo motivo nacquero, inizialmente tollerati e poi apertamente approvati e finanziati dal ministero dell’Interno, decine di gruppi speciali semi-autonomi che collaboravano in una specie di “zona grigia” tra legalità e illegalità, tra Gestapo e questura. Anche se riconosciuti dal ministero dell’Interno, questi gruppi sono passati alla storia come “bande”, e così considerati, anche grazie alla memorialistica di Salò, che le ha disconosciute come reparti ufficiali.
Solo per fare qualche esempio: a Roma si erano organizzate una dozzina di “bande”, alcune delle quali specializzate nella “caccia all’ebreo”, spesso agli ordini diretti dei tedeschi. A Milano svolgevano operazioni di polizia il «capitano Bossi della Guardia», il reparto servizi speciali di Pietro Koch, il cip (Centro informazioni politiche) di Mario Finizio, il gruppo Bernasconi, la Muti, la Brigata nera, il gruppo del tenente colonnello De Santis, la signorina Miranda Serra, il Conte di Toledo, il tenente Pastori, tale Iacomelli e il questore Molfese.
Nel gennaio del 1945 Mario Bassi segnalava come «organi non autorizzati a spiccare ordini di carcerazione» il «battaglione antiparacadutisti dell’Aeronautica; il Battaglione Bir el Gobi; il Gruppo rionale della brigata nera “Aldo Resega”; comandi militari dell’Esercito repubblicano».
Il personale di questi gruppi era formato da ex informatori dell’Ovra, criminali comuni e spostati di tutti i generi che avevano trovato nella RSI l’occasione per crearsi un centro di potere o di guadagnarsi facilmente la vita, con i risultati per l’ordine pubblico e per il prestigio della Repubblica che si possono ben immaginare.
I risultati di questa proliferazione di gruppi armati fu decisamente controproducente. Montagna, in una relazione al ministro dell’Interno, del 21 novembre 1944, scrisse: «Gli inconvenienti di avere troppi organismi di polizia che arrestano, perquisiscono, fucilano etc. sono noti e altrettanto noti sono i danni causati da servizi di informazione non controllati ed in genere poco seri».
Montagna si basava sugli innumerevoli rapporti che arrivavano dalle questure, come ad esempio quello del questore di Torino: «il Capo della Provincia […] ha segnalato che il maggiore De Biase, comandante dell’Aeroporto di Venaria, opera arbitrari ed indiscriminati fermi di persone, requisizioni e rastrellamenti». Sempre a Venaria, «trovasi ora un reparto di paracadutisti che s’arroga pure funzioni di polizia fermando cittadini e automezzi e che tale reparto è comandato da un capitano il quale asserisce sempre che “egli non dipende da nessuno”».
Perquisizioni arbitrarie, furti e saccheggi, consegna di detenuti ai tedeschi per la deportazione, violenze gratuite erano all’ordine del giorno. Ma non ci si fermava a tutto questo. In ogni città, ogni polizia speciale e ogni UPI aveva la sua “villa triste”, come venivano chiamati i centri di tortura dalla popolazione. Luoghi ben conosciuti dalla cittadinanza, sinonimo di terrore e violenza senza limiti, e che cancellavano ogni fiducia nella Repubblica.
Tra le bande più note e temute vi furono la banda Koch e la banda Carità.
La banda Koch nacque a Roma, prendendo il nome dal suo comandante, Pietro Koch, un ex granatiere figlio di un commerciante di vini tedesco stabilitosi in Italia da decenni. Il nome ufficiale era Reparto speciale di polizia, ed era alle dipendenze del ministero dell’Interno. Forte di qualche decina di uomini, operò a Roma e a Milano fino all’estate del 1944, quando fu sciolto per ordine del questore sotto la pressione del cardinale Schuster.
La banda Carità, anch’essa dal nome del suo comandante Mario Carità, operò a Firenze e Padova, concludendo la sua attività solo con la fine della guerra.
Oltre a questi gruppi spontanei, ogni reparto armato della Repubblica aveva i suoi uffici politici. Per la violenza dei loro metodi, non avevano nulla da invidiare alle più famose bande Carità o Koch. Ad esempio, si distinse per la brutalità il reparto dei Mai morti (della X Mas), formato a Trieste da Beniamino Fumai. Solo alcune di queste bande furono fermate o represse dalle autorità: per intervento dei tedeschi (la banda di palazzo Braschi a Roma), o per beghe e conflitti di potere interni al Par- tito (la banda Koch a Milano), oppure furono oggetto di indagini per intervento dell’autorità religiosa (la Muti a Milano). Ma erano diventate troppo utili o troppo potenti per cancellarle completamente. Spesso i vari comandanti potevano mettersi sotto la protezione di un gerarca o, come nel caso di Colombo, addirittura sotto quella di Mussolini, con il risultato che le inchieste finivano nel nulla.
Bisogna infine sottolineare un altro aspetto. Se per la RSI in generale il concetto di collaborazionismo può essere discutibile, in quanto ufficialmente stato alleato del Reich, e quindi non rientra nella tipica forma del collaborazionismo di istituzioni direttamente controllate dai tedeschi nei territori occupati, queste “bande” si erano messe spontaneamente al servizio dei tedeschi, anche prima della nascita di un governo italiano. Personaggi come Emerico Zuccari (comandante della Tagliamento) e Rizzatti furono effettivamente dei collaborazionisti, così come le varie “bande” che lavorarono a Roma con la Gestapo nella ricerca e arresto degli ebrei. Non erano funzionari dello Stato o militari che, comunque, obbedivano agli ordini di un governo che potevano considerare legittimo, ma collaborazionisti del nazismo tout court.
Le Brigate nere furono le formazioni che sono probabilmente rimaste più impresse nella memoria collettiva degli italiani del Centro-Nord. La loro origine sta nelle “squadre federali di polizia”, un corpo di autodifesa del Partito voluto da Pavolini con una circolare del 5 novembre 1943. Dopo un mese, queste squadre furono sciolte per ordine di Mussolini, dato che con la nascita della GNR, erano diventate un inutile doppione. Come detto, dopo la caduta di Roma Mussolini diede il proprio assenso alla nascita delle Brigate nere. Dal punto di vista strettamente militare, le BN rappresentarono il corpo meno efficiente di tutta la Repubblica. La loro forza andava da un migliaio di uomini, come a Milano, a poche decine. Complessivamente, nell’aprile del 1945 gli uomini inquadrati nell’esercito privato di Pavolini sarebbero stati tra i 22.000 e i 30.000. L’armamento consisteva, secondo i tedeschi, su fucili e mitra e “poche” mitragliatrici pesanti.
Gli uomini reclutati dalle BN rappresentavano il fondo del barile. Persone troppo anziane o giovanissimi senza alcuna preparazione militare, divise improvvisate, armamento altrettanto improvvisato e disciplina pessima, caratterizzarono il Corpo ausiliario delle camicie nere, che fu impiegato unicamente per il controllo del territorio e utilizzato con parsimonia nei rastrellamenti contro i partigiani.© 2024 by Carocci editore S.p.A., Roma
Solo per fare qualche esempio: a Roma si erano organizzate una dozzina di “bande”, alcune delle quali specializzate nella “caccia all’ebreo”, spesso agli ordini diretti dei tedeschi. A Milano svolgevano operazioni di polizia il «capitano Bossi della Guardia», il reparto servizi speciali di Pietro Koch, il cip (Centro informazioni politiche) di Mario Finizio, il gruppo Bernasconi, la Muti, la Brigata nera, il gruppo del tenente colonnello De Santis, la signorina Miranda Serra, il Conte di Toledo, il tenente Pastori, tale Iacomelli e il questore Molfese.
Nel gennaio del 1945 Mario Bassi segnalava come «organi non autorizzati a spiccare ordini di carcerazione» il «battaglione antiparacadutisti dell’Aeronautica; il Battaglione Bir el Gobi; il Gruppo rionale della brigata nera “Aldo Resega”; comandi militari dell’Esercito repubblicano».
Il personale di questi gruppi era formato da ex informatori dell’Ovra, criminali comuni e spostati di tutti i generi che avevano trovato nella RSI l’occasione per crearsi un centro di potere o di guadagnarsi facilmente la vita, con i risultati per l’ordine pubblico e per il prestigio della Repubblica che si possono ben immaginare.
I risultati di questa proliferazione di gruppi armati fu decisamente controproducente. Montagna, in una relazione al ministro dell’Interno, del 21 novembre 1944, scrisse: «Gli inconvenienti di avere troppi organismi di polizia che arrestano, perquisiscono, fucilano etc. sono noti e altrettanto noti sono i danni causati da servizi di informazione non controllati ed in genere poco seri».
Montagna si basava sugli innumerevoli rapporti che arrivavano dalle questure, come ad esempio quello del questore di Torino: «il Capo della Provincia […] ha segnalato che il maggiore De Biase, comandante dell’Aeroporto di Venaria, opera arbitrari ed indiscriminati fermi di persone, requisizioni e rastrellamenti». Sempre a Venaria, «trovasi ora un reparto di paracadutisti che s’arroga pure funzioni di polizia fermando cittadini e automezzi e che tale reparto è comandato da un capitano il quale asserisce sempre che “egli non dipende da nessuno”».
Perquisizioni arbitrarie, furti e saccheggi, consegna di detenuti ai tedeschi per la deportazione, violenze gratuite erano all’ordine del giorno. Ma non ci si fermava a tutto questo. In ogni città, ogni polizia speciale e ogni UPI aveva la sua “villa triste”, come venivano chiamati i centri di tortura dalla popolazione. Luoghi ben conosciuti dalla cittadinanza, sinonimo di terrore e violenza senza limiti, e che cancellavano ogni fiducia nella Repubblica.
Tra le bande più note e temute vi furono la banda Koch e la banda Carità.
La banda Koch nacque a Roma, prendendo il nome dal suo comandante, Pietro Koch, un ex granatiere figlio di un commerciante di vini tedesco stabilitosi in Italia da decenni. Il nome ufficiale era Reparto speciale di polizia, ed era alle dipendenze del ministero dell’Interno. Forte di qualche decina di uomini, operò a Roma e a Milano fino all’estate del 1944, quando fu sciolto per ordine del questore sotto la pressione del cardinale Schuster.
La banda Carità, anch’essa dal nome del suo comandante Mario Carità, operò a Firenze e Padova, concludendo la sua attività solo con la fine della guerra.
Oltre a questi gruppi spontanei, ogni reparto armato della Repubblica aveva i suoi uffici politici. Per la violenza dei loro metodi, non avevano nulla da invidiare alle più famose bande Carità o Koch. Ad esempio, si distinse per la brutalità il reparto dei Mai morti (della X Mas), formato a Trieste da Beniamino Fumai. Solo alcune di queste bande furono fermate o represse dalle autorità: per intervento dei tedeschi (la banda di palazzo Braschi a Roma), o per beghe e conflitti di potere interni al Par- tito (la banda Koch a Milano), oppure furono oggetto di indagini per intervento dell’autorità religiosa (la Muti a Milano). Ma erano diventate troppo utili o troppo potenti per cancellarle completamente. Spesso i vari comandanti potevano mettersi sotto la protezione di un gerarca o, come nel caso di Colombo, addirittura sotto quella di Mussolini, con il risultato che le inchieste finivano nel nulla.
Bisogna infine sottolineare un altro aspetto. Se per la RSI in generale il concetto di collaborazionismo può essere discutibile, in quanto ufficialmente stato alleato del Reich, e quindi non rientra nella tipica forma del collaborazionismo di istituzioni direttamente controllate dai tedeschi nei territori occupati, queste “bande” si erano messe spontaneamente al servizio dei tedeschi, anche prima della nascita di un governo italiano. Personaggi come Emerico Zuccari (comandante della Tagliamento) e Rizzatti furono effettivamente dei collaborazionisti, così come le varie “bande” che lavorarono a Roma con la Gestapo nella ricerca e arresto degli ebrei. Non erano funzionari dello Stato o militari che, comunque, obbedivano agli ordini di un governo che potevano considerare legittimo, ma collaborazionisti del nazismo tout court.
Le Brigate nere furono le formazioni che sono probabilmente rimaste più impresse nella memoria collettiva degli italiani del Centro-Nord. La loro origine sta nelle “squadre federali di polizia”, un corpo di autodifesa del Partito voluto da Pavolini con una circolare del 5 novembre 1943. Dopo un mese, queste squadre furono sciolte per ordine di Mussolini, dato che con la nascita della GNR, erano diventate un inutile doppione. Come detto, dopo la caduta di Roma Mussolini diede il proprio assenso alla nascita delle Brigate nere. Dal punto di vista strettamente militare, le BN rappresentarono il corpo meno efficiente di tutta la Repubblica. La loro forza andava da un migliaio di uomini, come a Milano, a poche decine. Complessivamente, nell’aprile del 1945 gli uomini inquadrati nell’esercito privato di Pavolini sarebbero stati tra i 22.000 e i 30.000. L’armamento consisteva, secondo i tedeschi, su fucili e mitra e “poche” mitragliatrici pesanti.
Gli uomini reclutati dalle BN rappresentavano il fondo del barile. Persone troppo anziane o giovanissimi senza alcuna preparazione militare, divise improvvisate, armamento altrettanto improvvisato e disciplina pessima, caratterizzarono il Corpo ausiliario delle camicie nere, che fu impiegato unicamente per il controllo del territorio e utilizzato con parsimonia nei rastrellamenti contro i partigiani.© 2024 by Carocci editore S.p.A., Roma