Da Mosca a Vladivostok, dal mar Nero alla steppa siberiana, dai monti Urali all’Oceano Pacifico. Pur essendo una delle più grandi potenze della Storia, grande come un continente, la Russia è allo stesso tempo un Paese periferico che vive di riflesso i grandi cambiamenti epocali. L’impero della periferia, lo definisce lo storico e sociologo russo Boris Kagarlickij in questo saggio pubblicato da Castelvecchi. Il libro, che ha per sottotitolo Storia critica della Russia dalle origini a Putin, ha una nuova prefazione che contempla pure gli ultimi accadimenti legati all’invasione dell’Ucraina. Interessante è l’analisi del parallelismo tra lo sviluppo del modello capitalistico in Occidente, raffrontato a quello che sta avvenendo nella Federazione Russa dove al potere sono i grandi oligarchi e gli uomini dell’apparato. Boris Kagarlickij, nato nel 1958 a Mosca, è un autorevole storico e sociologo russo, professore di Scienze Politiche all’Università di Mosca e uno dei più noti dissidenti marxisti. Il 31 luglio di quest’anno è stato nuovamente arrestato con l’accusa di incitazione al terrorismo, che prevede una reclusione dai 3 ai 7 anni. Per il suo attivismo, Kagarlickij era stato arrestato già due volte, nel 1982 sotto Bréžnev, e nel 1993 sotto Boris Eltsin. Nel 2022 era stato accusato dal Ministero di Giustizia di essere un “agente straniero”. Tramite il suo avvocato, Kagarlickij si dichiara innocente. Ora è partita una campagna a livello internazionale per chiedere la sua immediata liberazione: https://freeboris.info/
Russian socialist arrested for opposing the invasion of Ukraine freeboris.info |
.Fabio Poletti
Il libro, che parte dal VII secolo, arriva fino all’invasione dell’Ucraina che l’autore vede non come il tentativo di ricostruire la potenza territoriale sovietica ma come una risposta, una delle possibili, alla Grande Recessione del 2008-2010. Insomma un tentativo di allargamento della propria egemonia da parte del Cremlino, ai danni di Paesi confinanti e dunque periferici. Operazione già tentata, secondo il sociologo, dall’Argentina quando sfidò la Gran Bretagna alle isole Falkland o dall’Irak quando cercò di annettersi il Kuwait: «A differenza delle guerre di liberazione e anticoloniali del XX secolo, queste avventure, iniziate da regimi dittatoriali sviluppatisi alla periferia del sistema mondiale capitalista con l’assistenza diretta dell’Occidente, sono finite in modo disastroso per i loro promotori».
Boris Kagarlickij
Storia critica della Russia dalle origini a Putin traduzione di Anna Lavina 2023 Castelvecchi pagine 552 euro 25
Per gentile concessione dell’autore Boris Kagarlickij e dell’editore Castelvecchi pubblichiamo un estratto dal libro L’impero della periferia.
Il progetto Putin Le pubblicazioni occidentali sulla Russia a metà degli anni Duemila lamentavano unanimemente che il Paese aveva «fatto un significativo passo indietro in termini di democrazia rispetto ai primi anni Novanta», ma tali commentatori dimenticavano di menzionare gli eccessi autoritari dell’epoca di El’cin, la distruzione del Parlamento nel 1993 o i bombardamenti in Cecenia nel 1995. E certamente nessuno di loro coglieva un legame tra il declino delle libertà civili e l’ascesa del capitalismo in Russia, che per qualche motivo avveniva nello stesso periodo. Il sistema di “democrazia controllata” (o “democrazia sovrana”, come si è cominciato a dire verso la fine degli anni Duemila) messo in atto dal Cremlino si basò non solo su misure di polizia e restrizioni della libertà politica, ma soprattutto sul consolidamento delle élite, che a metà del decennio era diventato un fatto reale: erano finiti i tempi di Boris El’cin, quando i clan oligarchici rivali saccheggiavano indiscriminatamente le ricchezze dello Stato e si contendevano il bottino. Ordine e stabilità erano considerati da tutti necessari affinché i nuovi padroni potessero disporre efficacemente dei beni privatizzati. Questi nuovi obiettivi vennero ben compresi dall’amministrazione di Vladimir Putin. Fin dai primi giorni al potere, prima come premier nel 1999 e poi come nuovo come presidente nel 2000, il nuovo leader non solo rafforzò sistematicamente la posizione della burocrazia statale, ma fece in modo che le grandi corporation facessero i conti con le autorità e tra di loro. Nei confronti degli oligarchi, il governo si comportò ora come un severo insegnante che cura gli interessi dei suoi allievi e non permette che si verifichino disordini. Chi era disobbediente, non voleva rispettare le nuove regole o cercava di imporre le proprie, veniva punito severamente, fino all’espulsione dalla classe. L’oligarchia brontolò in buona parte, ma obbedì. Le dure misure disciplinari di Putin trasformarono un’accolita di clan predatori in una sorta di classe borghese rispettabile. In queste condizioni, l’opposizione liberale, come già nella Russia di fine Ottocento, poté contare su simpatie “ideologiche”, ma non su un serio sostegno da parte della classe imprenditoriale che, nonostante tutte le sue rimostranze contro la burocrazia, era generalmente soddisfatta dello stato delle cose instauratosi. Man mano che si sviluppava e si consolidava, il sistema di “democrazia controllata” diventava sempre meno democratico e più controllabile. Allo stesso tempo, vennero sferrati colpi contro i clan oligarchici che si opponevano al Cremlino (in particolare la compagnia Yukos, i cui capi finirono in prigione o all’estero). Tuttavia, tale “lotta contro gli oligarchi” non mutò in alcun modo la struttura dell’economia, né la natura del rapporto del Paese con il sistema globale. Gli studiosi occidentali hanno riconosciuto che la politica del Cremlino non rappresentava un attacco all’oligarchia, ma un tentativo di “disciplinare” gli uomini d’affari che non erano disposti ad accettare le nuove regole. Il capitalismo russo, nella migliore tradizione nazionale, si stava trasformando da oligarchico a burocratico, senza smettere di essere arretrato e periferico. Le politiche di Putin portarono a una maggiore presenza dello Stato nell’economia. Il controllo della burocrazia sulle ricchezze nazionali rimaste nelle mani del governo aumentò e la stessa burocrazia dello Stato entrò in affari e fu sempre più efficiente nel perseguire i comuni interessi capitalistici. Tuttavia, mentre gli ideologi liberali denunciavano le “nazionalizzazioni”, la stampa economica russa guardava positivamente alla situazione: «Nell’industria petrolifera, il totale degli asset statali è diventato paragonabile a quello dei privati, e Rosneft è la più grande delle compagnie del settore. Una situazione del genere non esiste nella pratica mondiale, a nostro avviso, ma non ha cambiato la natura di mercato del settore. Ci sono ancora diverse grandi compagnie petrolifere integrate verticalmente che competono e c’è ancora spazio per strutture più piccole». Gli esperti del Consiglio della Federazione furono costretti ad affermare che lo sviluppo delle società statali non solo non rafforzava il controllo del governo sulle loro attività, ma, al contrario, apriva la strada a una «privatizzazione spontanea», dal momento che la proprietà e il capitale di tali società «cessano di essere soggetti alla proprietà statale». Le nuove élite societarie, formatasi in stretta connessione con la burocrazia governativa, erano loro stesse in grado di formulare priorità politiche, non solo per la propria azienda, ma anche per il governo. titolo originale Periferiynnaja imperija. Rossiya i miroskistema © Boris Kagarlickij, 2019 © 2023 Lit Edizioni s.a.s