Questo è un libro sulle radici mai certe. E sugli “italiani brava gente” che occuparono la Somalia e un bel pezzo di Africa Orientale cantando «Faccetta nera», ne vennero finalmente scacciati e ci tornarono negli Anni Cinquanta, come amministratori fiduciari, per costruire l’architrave della società e dello Stato. Ubah Cristina Ali Farah, nata a Verona da madre italiana e padre somalo, cresciuta a Mogadiscio fino al 1991 quando è scappata dalla guerra civile, in questo Le stazioni della luna pubblicato da 66THAND2ND, ci mette un bel pezzo della sua storia personale. Clara, la protagonista del libro, scappa da Mogadiscio nel 1941 quando arrivano gli inglesi, fugge in Italia, senza riuscire a placare la nostalgia di quando con i piedi affondava nella sabbia calda del suo Paese. Tenere insieme le sue radici, somale e italiane, è la sua forza. Il rapporto con Ebla, la sua mamma di latte africana, che ha vissuto sulla sua pelle scura la sferza del peggiore colonialismo, altro che italiani brava gente, alza il sipario sullo scenario politico e sociale di un Paese calpestato dagli stivali degli squadroni delle milizie fasciste, che si ripresentano poi anni dopo in eleganti completi e scarpe di lucido vitellino, a fare da amministratori e garanti della ricostruzione. Un romanzo che è pure un saggio politico, su un aspetto della nostra storia di italiani colonizzatori che si fa finta di non ricordare, colpevolmente nascosta in poche righe nei libri di scuola. Fabio Poletti Ubah Cristina Ali Farah Le stazioni della luna 2021 66THAND2ND pagine 208 euro 16
Per gentile concessione dell’autrice Ubah Cristina Ali Farah e dell’editore 66THAND2ND pubblichiamo un estratto dal libro Le stazioni della luna.
Dalla nave, Mogadiscio riluceva di un bianco fulgido, simile al bordo dentellato di una conchiglia. La superficie baluginava argentea e una striscia di sabbia candida percorreva il litorale. I minareti spuntavano snelli sugli edifici e, in lontananza, si distingueva il formicolio del porto, i preparativi frenetici per lo sbarco. Il fondale era irto di scogli e occorreva una gru per calare i passeggeri dal ponte, in piedi dentro a una grande cesta, fino al fondo di una maona. La maona era ferma sul lato della nave e, non avendo chiglia, poteva passare dappertutto. Aveva i bordi alti incrostati di sabbia e corallo, i sedili lunghi e diversi appigli a cui potersi aggrappare. L’oceano sembrava calmo sotto il luccichio del cielo, ma bisognava reggersi per non urtare il vicino. Le onde a tratti si gonfiavano e allora una folata di spruzzi colpiva i passeggeri. Clara premeva il cappello di paglia sulla nuca e sentiva il sole intiepidirle le braccia. Per molto tempo aveva sognato quel ritorno nella città natale e ora era emozionata, quasi sbigottita, colma di aspettative. L’odore di salsedine e l’aria satura e umida la fecero sentire immediatamente a casa: il cotone della camicetta le aderiva al seno e le pieghe della gonna restavano intrappolate tra le gambe. Ad attenderla, sul pontile, riconobbe subito Haajiya. Erano passati quasi dieci anni dall’ultima volta che si erano viste, eppure era rimasta la stessa, non fosse stato per la ciocca grigia che le sfuggiva dal velo. Aveva ancora le mani forti e il fisico asciutto di chi è sempre in movimento. «Clara!» gridò appena la riconobbe tra gli altri passeggeri, gli inconfondibili capelli rossi raccolti in una coda di cavallo. Clara le corse incontro con un’affezione quasi infantile, perché era così che Haajiya la faceva sentire, una bambina. «Vieni ad abbracciarmi» esclamò la suora visibilmente commossa e, dopo averla stretta a lungo, aggiunse: «Sediamoci tranquille a chiacchierare da qualche parte, ci potrebbero volere secoli per il bagaglio». Numerosi erano i camalli indaffarati sul molo e le chiatte continuavano a incrociarsi in lontananza. Gruppetti di bambini coperti di stracci chiedevano l’elemosina e qua e là spuntava la sagoma dei mercanti indiani vestiti di bianco. Nella confusione, giovani dalla carnagione olivastra gesticolavano in segno di protesta, così come uomini più anziani e corpulenti con il collo gonfio che spuntava dalla camicia aperta. Eppure, quella lentezza languida di procrastinazione, quell’immobilismo caotico erano per Clara fonte più di conforto che di fastidio, quasi che bastassero da soli a riportarla indietro nel tempo. I minuti volavano accanto a Haajiya. Risero ricordando quando, ancora bambina, si metteva a balbettare leggermente ogni volta che la suora l’accompagnava a recitare il rosario. Clara le chiedeva insistentemente chi fosse Dio il Creatore e la donna non rispondeva mai con chiarezza, diceva solo che Dio era quello ritratto nel quadro gigante appeso dietro l’altare. A Clara sembrava che il quadro fosse piuttosto l’immagine spiccicata di padre Francesco, un vecchio missionario un po’ gobbo dalla lunga barba bianca, e allora Haajiya ribadiva che Dio era anche in tutte le cose: nel cielo stellato, nelle campanelle gialle, nel cavalluccio marino; insomma, in ogni essere del Creato. Finalmente, dopo un’attesa che durò meno del previsto, riconobbe il suo baule tra quelli depositati dai facchini sulla banchina. Il coperchio era percorso da strisce di cuoio. Era lo stesso baule che aveva quando era stata costretta ad abbandonare la città, molti anni prima, insieme alla madre Margherita e al fratello Enrico. Al suo interno, Clara aveva disposto non soltanto gli abiti estivi, accuratamente stirati e apprettati dalla madre, ma anche qualche romanzo, il libro Cuore e una copia di Alba radiosa, il primo sussidiario italiano per somali. In copertina un panorama di Mogadiscio: il sole sorgeva all’orizzonte e un bambino sorrideva in primo piano con un grosso volume sotto il braccio. C’erano anche medicine per l’infermeria – medicine rare e miracolose in Somalia come chinino, penicillina, mercurocromo e aspirina –, qualche prodotto per la toeletta e un piccolo quadro di maiolica avvolto nella carta di giornale. Il quadro, bordato di nontiscordardimé e margheritine, aveva incise le parole di una preghiera. Era stata proprio Haajiya a regalarglielo, molti anni prima. Clara l’aveva sempre tenuto appeso sopra la testiera del letto nelle varie case dove era vissuta. Ogni sera, prima di addormentarsi, si inginocchiava con le mani giunte e recitava a memoria: «O Signore grande e buono, Tu lo sai che anch’io ci sono; Tu che vesti il fiorellino, che dài l’ali all’uccellino, rendi lieti babbo e mamma, fa’ che brilli ognor la fiamma sul tranquillo focolar e che tutti io sappia amar». Ora il quadro aveva finalmente fatto ritorno a Mogadiscio, insieme alla sua proprietaria. © Ubah Cristina Ali Farah, 2021 © 66THAND2ND 2021