Ogni sguardo è diverso, si sa. Così come la memoria di ognuno di noi, si rafforza nei momenti topici e si affievolisce col passare degli anni. Ma questo La casa dei notabili, di Amira Ghenim, pubblicato dalle Edizioni e/o, non è (solo) un libro sulla memoria. È il racconto della Tunisia che si dipana dagli Anni Trenta ai giorni nostri, mettendo insieme l’evoluzione sociale e quella dei costumi, la narrazione a posteriore dei protagonisti, con il loro carico di valori e perché no di memoria. Alla fine ne esce un libro quasi magico, come magica è la penna di Amira Ghenim, nata nel 1978 in Tunisia, scrittrice e professoressa di Linguistica e Traduzione presso l’Università di Tunisi. Dopo numerosi saggi di stampo accademico, nel 2019 ha pubblicato il romanzo al-Malaff al-Asfar, che l’anno dopo ha vinto il premio Sheikh Rashid bin Hamad. Nel 2020 ha pubblicato il romanzo La casa dei notabili, che è entrato nella rosa dei sei finalisti dell’International Prize for Arabic Fiction e ha ricevuto il premio speciale della giuria del Comar d’Or, il più prestigioso premio tunisino. Sullo sfondo di un paese in fermento, alla ricerca della propria identità, in questo romanzo si intrecciano le vite e i destini dei membri di due importanti famiglie dell’alta borghesia di Tunisi: la famiglia en-Neifer, dalla rigida mentalità conservatrice e patriarcale, e la famiglia ar-Rassa‛, liberale e progressista. Il nucleo attorno al quale ruotano le vicende narrate nel romanzo è una terribile notte di dicembre del 1935, quando la vita in casa en-Neifer è stata sconvolta da un evento che ha condannato per sempre all’infelicità Zubaida ar-Rassa‛, la giovane moglie di Mohsen en-Neifer, sospettata di aver avuto una storia d’amore clandestina con Taher al-Haddad, intellettuale di umili origini noto per il suo attivismo in ambito sindacale e in favore dei diritti delle donne. Le vicende di quella notte vengono raccontate in prima persona da undici diversi narratori, membri delle due famiglie, in momenti storici diversi (dagli anni Quaranta ai nostri giorni), in un intreccio di segreti, ricordi, accuse, rimpianti ed emozioni. Fabio Poletti
Amira Ghenim La casa dei notabili traduzione dall’arabo di Barbara Teresi 2023 Edizioni e/o pagine 416 euro 19Per gentile concessione dell’autrice Amira Ghenim e delle Edizioni e/o pubblichiamo un estratto dal libro La casa dei notabili.
Non ero ancora arrivata a mettere i piedi negli zoccoli quando nel buio della casa, dalla stanza di Lella Zubaida, si è alzato un grido che ha fatto tremare il soffitto e le pareti. Mi sono sentita gelare il sangue nelle vene, ho pensato di tutto. Lella Zubaida aveva da poco dato alla luce tuo padre sidi Mustafa; dal suo parto difficile erano trascorse appena due o tre settimane. Temevo che al neonato fosse successo quello che un anno e mezzo prima era accaduto a suo fratello, il gemello di sidi Mohamed Habib: era stato allattato al seno a sazietà, si era addormentato come un angioletto, con le guance rosse e il respiro regolare, ma poi da quel sonno non si era più svegliato. Al suo corteo funebre, e alla cerimonia del quarantesimo giorno, ha sfilato gente molto in vista, perché nella capitale il peso di un morto dipende dall’importanza del suo casato, non delle sue buone azioni. Quella mattina all’alba dunque mi sono precipitata a capo scoperto, gli zoccoli in una mano e una lanterna nell’altra, incurante del fatto che gli uomini di casa potessero vedermi in abiti da camera. Tutti sapevano che lella Zubaida per me era una sorella, prima ancora di essere la mia signora, altrimenti non avrebbe insistito per portarmi con sé in casa del marito nonostante la riluttanza di sua madre lella Beshira a lasciarmi andare e malgrado sua suocera lella Jnaina fosse restia ad acco- gliere un’altra domestica di cui forse non c’era bisogno. Sotto la stanza della servitù, nel mezzanino tra la cucina e i magazzini nell’ala ovest della dimora nobiliare, e la camera di lella Zubaida, nell’ala sud al piano superiore destinata a lei, al marito e ai loro figli, c’era il patio scoperto, circondato dalle stanze dei miei signori più grandi, i padroni di casa, lella Jnaina ash-Sharif, la suocera di lella Zubaida, sidi Othman en-Neifer, il suocero, e sidi Mhammed, il loro figlio minore nonché il più viziato, quello da cui ci sarebbe giunta la catastrofe, e che all’epoca studiava alla prestigiosa università islamica al-Zaytuna. Quanto alle stanze delle figlie femmine, Mennana, Nezha e Beyya, le tue prozie, erano state chiuse una dopo l’altra man mano che le ragazze erano andate a vivere in casa dei rispettivi mariti. Ho attraversato il cortile interno come una cavalla imbizzarrita, diretta alla camera di lella Zubaida, per quanto la pioggerellina notturna che aveva bagnato il pavimento levigato mi costringesse a stare attenta per paura di scivolare. Quando stavo per raggiungere le scale coperte che portavano al piano di sopra, sidi Mohsen, avvolto nella sua veste bordeaux, è uscito sul ballatoio che dava sul cortile. Non appena mi ha vista mi ha rassicurata con un cenno della mano, dandomi a intendere di non preoccuparmi per tua nonna e per il neonato, e mi ha rispedita indietro, nella dispensa, a prendere la chiave a brugola. Da quella richiesta ho capito che lella Zubaida aveva di nuovo avuto una crisi epilettica. Un antico malanno che fingevamo di aver dimenticato e da cui forse eravamo stati sollevati grazie ai doni di sua madre, lella Beshira, al santuario di Lella Aisha Manoubia e ai tanti montoni offerti in sacrificio al santuario di Sidi Mahrez. Ricordo ancora il primo attacco di epilessia come fosse ieri. Incredibile, Hind, la memoria di questa vecchia decrepita con un piede nella fossa, che tu hai ereditato da tuo padre, pace all’anima sua. Il tempo le ha portato via la vista e le gambe, ma la sua mente è ancora in grado di mettere insieme i pezzi e ricostruire gli eventi. La cosa davvero sorprendente è che sono capace di rievocare i fatti del passato più remoto, proprio io che al mattino non ricordo già più cosa ho mangiato a cena la sera prima. Lella Beshira, la tua bisnonna, era impegnata con Hadda a preparare il distillato di gerani. Questa Hadda era una cuoca che le mogli dei notabili di Tunisi chiamavano per via della sua grande esperienza nella preparazione di conserve di ogni tipo, perché a quei tempi noi non trovavamo il couscous e la mhamsa* confezionati nel cellophane e privi di sapore come li comprate al giorno d’oggi, né conoscevamo aromi e spezie macinate già pronte; ogni stagione aveva le sue conserve, che andavano a riempire la dispensa delle provviste in casa delle persone abbienti, e la primavera era la stagione dei distillati di fiori d’arancio, geranio, rosa arabica, rosa canina e altre piante profumate. Io avevo il compito, adatto alla mia età di allora, di ricevere dalle mani di Hadda l’ampolla che aveva preparato e tapparla con un ritaglio di stoffa da lei predisposto allo scopo di sigillarla affinché il profumo non si disperdesse. Ero a servizio nella dimora di lella Beshira da poco tempo e non avevo ancora imparato a conoscere la capitale, perciò fissavo a bocca aperta le gocce che scendevano dal tubo dell’alambicco nel collo della bottiglia e non capivo come l’acqua fredda che Hadda versava nella parte superiore del distillatore potesse trasformarsi in quel liquido tiepido su cui compariva uno strato untuoso, una specie di olio ma senza olio, il cui profumo delizioso si spandeva per tutta la casa. Lella Zubaida, invece, che aveva qualche anno più di me, si divertiva a scacciare le api che volteggiavano sopra il cumulo di fiori che il facchino di sidi Ali aveva portato dal suq ed erano ammonticchiati di lato, accanto al posto di Hadda, in attesa del proprio turno di essere bolliti nella parte inferiore dell’alambicco, il cui fondo era divorato dal fuoco. Mi ero un po’ annoiata a forza di aspettare “la testa”, come lì nella capitale chiamavano il primo prodotto della distilla- zione, e così sono andata da lella Zubaida per aiutarla a scovare le api nascoste tra le foglie verdi e i delicati fiori viola tipici della pianta del geranio, ridendo insieme a lei ogni volta che trovavamo una nuova ape. All’improvviso lella Zubaida ha lanciato un urlo lancinante, proprio come in quella malaugurata alba, e poi è crollata a terra strabuzzando gli occhi in preda a un violento tremito. Lella Beshira è balzata in piedi, spaventata, e ha urtato inavvertitamente l’alambicco. Mi sembra di sentirlo ancora adesso, il frastuono assordante che ha prodotto quando si è schiantato sul pavimento della cucina, e di nuovo mi torna alle narici quel buon profumo emanato dall’acqua che scorreva fuori dai tanti buchi. Lella Beshira ha controllato le parti del corpo scoperte della figlia, cercando il segno del morso d’ape, perché all’inizio supponeva che la crisi fosse dovuta a una puntura tossica, magari quella dell’ape regina. Così immaginava allora. Ma poi, non trovando traccia di nulla e vedendo che lella Zubaida continuava a dimenarsi, si è voltata verso di me, come se di colpo le si fossero chiarite le idee, e mi ha detto con la crudeltà di chi è sicuro di sé: «Cosa le hai fatto, disgraziata?». Quel giorno ho pianto amaramente come avrei poi fatto molte altre volte in casa di lella Beshira. Ma Dio mi è testimone, Hind, non ho mai portato rancore alla tua bisnonna, e l’ho perdonata dal profondo del cuore quando mi ha chiesto scusa sul suo letto di ammalata, e alla sua morte ho versato più lacrime di quante ne avessi versate per mia mamma, perché dopo tutto lei era per me una seconda madre. © 2020 Masaa Publishing & Distribution (Ottawa, ON. 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