C’era Kabul prima di Kiev. L’Afghanistan prima dell’Ucraina. Una guerra prima di un’altra guerra. Nico Piro, inviato speciale della Rai, in questo Kabul, crocevia del mondo pubblicato da People, racconta in presa diretta vent’anni di storia dell’Afghanistan vissuti in prima persona. Il suo è un racconto circolare, come spesso la Storia impone, dalla caduta delle Twin Towers di New York all’arrivo degli americani che iniziano una guerra senza possibilità di successo contro i Talebani. Una guerra che finisce vent’anni dopo, quando gli americani si ritirano e i Talebani tornano al potere. Come se nulla fosse accaduto. Come se i miliardi di dollari investiti dagli americani in una guerra lunga quanto quella del Vietnam, per non parlare dei soldati e dei civili rimasti sul campo, si fossero volatilizzati senza lasciare conseguenze apparenti. Il racconto dell’inviato di guerra della Rai coniuga ciò che vede sul campo con un’analisi accurata degli eventi degli ultimi vent’anni. Culminati con il ritorno al potere degli studenti coranici integralisti, la fuga verso gli Emirati Arabi del presidente Ashraf Ghani con una vagonata di dollari per garantirsi presente e pure futuro. L’ultima indelebile immagine di quello che è stato è quella del generale americano Chris Donahue, il comandante della 82a Divisione Aviotrasportata, che ripreso dalle telecamere ad infrarossi sale nella torrida estate del 2021 sull’ultimo aereo in fuga da Kabul. È l’immagine di una sconfitta, forse la più grave dell’Occidente degli ultimi anni. Da quel giorno sono tanti gli interrogativi aperti. A partire dal futuro dell’Afghanistan in mani talebane che all’inizio della loro presa al potere cercarono di mostrare un volto più accomodante, garantendo che alle donne sarebbe stato consentito di lavorare e studiare come prima, salvo poi rimangiarsi quasi tutto, una volta spenti i riflettori dei media internazionali. In un Paese dove l’esodo verso l’Occidente sembra inarrestabile, rimane comunque ampio il consenso verso i Talebani, legittimati a guidare l’Afghanistan. Un motivo in più per tenere in fibrillazione le grandi cancellerie internazionali che temono un rilancio del terrorismo a livello globale. Ad aiutarci a capire c’è Nico Piro, considerato uno dei più importanti conoscitori dell’Afghanistan: «Non sono un medico, non sono un politico, sono un giornalista. Il mio pezzettino, la mia gocciolina, è provare a raccontare la guerra per quello che è: merda, sangue, morte e dolore». Fabio PolettiNico PiroKabul, crocevia del mondo2022 Peoplepagine 336 euro 17,50

Per gentile concessione dell’autore Nico Piro e della casa editrice People pubblichiamo un estratto dal libro Kabul, crocevia del mondo.I visori notturni catturano le più infinitesimali particelle di luce, quelle che l’occhio umano non distingue come tali, consentendo così alle forze speciali di possedere la notte, di muoversi nel buio, di colpire il nemico come invisibili fantasmi. I tubi dei night vision goggles trasformano quello che per l’occhio umano è un impasto di blu e nero in un mondo colorato di verde.Verde come la figura del generale Chris Donahue, il comandante della 82a Divisione Aviotrasportata, ultimo soldato americano in Afghanistan. Fotografato mentre sale su moose 85, nome in codice dell’ultimo C-17 statunitense a decollare dall’aeroporto di Kabul dopo giorni di disperata e tragica evacuazione. È la mezzanotte del 30 agosto 2021.Quell’immagine, diffusa il giorno dopo dal Dipartimento della Difesa, è il sigillo sulla fine della guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti.Sarà la brezza di Mosca, fredda ma estiva, che entra dalla finestra sulle sei corsie di Prospekt Mira, eppure a guardare quella foto mi viene in mente una scena vecchia di trentadue anni.L’ultimo uomo sul ponte, il generale Boris Gromov, comandante del Quarantesimo Corpo d’Armata. È il 15 febbraio del 1989 e Gromov guida l’Armata Rossa nella sua ritirata dall’Afghanistan. Scende da un blindato BTR-80 e procede a piedi verso suo figlio che lo aspetta con un mazzo di fiori. Gromov percorre il Ponte dell’Amicizia che collega l’Afghanistan all’Uzbekistan, all’epoca non ancora Stato indipendente ma una delle Repubbliche sovietiche d’Asia. In pratica, Gromov rientra in patria passeggiando.La sconfitta americana è perfettamente sovrapponibile a quella sovietica in Afghanistan. Forse non bisognerebbe nemmeno chiamarla “sconfitta”, in senso tecnico, perché così come i mujaheddin all’epoca non batterono militarmente i sovietici, anche i talebani non hanno spazzato via le truppe americane. In entrambi i casi, a livello bellico, si è consumato un pareggio, un eterno stallo, la reciproca impossibilità a vincere, con la conseguenza per le forze straniere di restare bloccate in un conflitto senza prospettiva, con troppe perdite e con costi enormi che il terreno (la complessa geografia afghana) moltiplica contribuendo allora all’implosione dell’economia sovietica e oggi alla crescita esponenziale del debito pubblico americano.Senza dubbio, in entrambi i casi, la reale disfatta si è manifestata sul piano politico. A guardarla con attenzione, la storia afghana compie traiettorie circolari. Si ripete uguale a se stessa come in un loop, eppure i potenti che decidono di avviare le proprie guerre in questo Paese quasi sempre lo dimenticano, convinti che loro rappresenteranno un’eccezione nei corsi e ricorsi della Storia, o forse semplicemente quella Storia la ignorano.Il loop afghano – la traiettoria circolare degli eventi – comincia il 12 novembre del 2001 e si chiude il 15 agosto del 2021.Ma questa traiettoria ha un abbrivio, inizia cioè a tracciarsi sette giorni dopo l’11 settembre del 2001.Le macerie delle Torri Gemelle sono ancora fumanti, i soccorritori continuano (invano) a sperare di tirar fuori qualche sopravvissuto dall’enorme cumulo di travi d’acciaio piegate dall’onda di calore generata dall’esplosione di 43mila litri di cherosene aeronautico. Scavano in mezzo a chilometri quadrati di vetri polverizzati, frammenti di ogni genere di isolanti chimici usati nella costruzione dei due grattacieli. Respirano fumi che costeranno a molti di loro una gravissima e ancora sconosciuta sindrome polmonare, la “tosse” del World Trade Center.Nonostante non sia ancora chiaro nemmeno il bilancio delle vittime, mentre il quadro politico degli attacchi resta vago tra le ombre di un passato afghano che l’opinione pubblica americana (ma anche i suoi apparati di sicurezza) ha completamente rimosso e ora sta riscoprendo, il 18 settembre del 2001 il Congresso si riunisce e consegna nelle mani della Casa Bianca un’autorizzazione a muovere guerra in risposta agli attacchi di sette giorni prima.Durante il dibattito parlamentare, Barbara Lee, californiana, democratica, nera, dirà: «Sono convinta che azioni militari non servano a prevenire ulteriori attacchi terroristici internazionali contro gli Stati Uniti. Questa è una materia complessa e complicata. […] Evitiamo di diventare quel male che combattiamo. […] Pensiamo alle conseguenze delle nostre azioni odierne per evitare che tutto questo finisca fuori controllo».Le parole di Barbara Lee resteranno inascoltate. Considerando le due Camere, il provvedimento passerà con 518 voti favorevoli e uno solo contrario. Per quel suo «no», Lee dovrà staccare i telefoni del proprio ufficio, intasati da chiamate piene d’insulti, e finirà sotto scorta, massacrata da commentatori e opinionisti.La public law 107-40-SEPT. 18, 2001 copre poco più di una pagina. Nella sua sezione 2, comma a, c’è scritto:Il Presidente è autorizzato a usare tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che egli ritiene abbiano pianificato, autorizzato, commissionato o collaborato agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, oppure che abbiano ospitato tali organizzazioni o persone, al fine di prevenire ogni atto futuro di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti da parte di tali nazioni, organizzazioni o persone.In meno di sette giorni, spinti da un’ondata emotiva e dal bisogno popolare di riaffermare la propria forza virile, dopo attacchi che avevano mostrato tutta la vulnerabilità del gigante americano, i parlamentari Usa consegnano alla Casa Bianca una sorta di infinito libretto di assegni bellici, in bianco.La formulazione è talmente vaga e aperta che, da quel momento in poi, ben quattro Presidenti (George W. Bush, Obama, Trump e Biden) non dovranno neanche passare per l’approvazione parlamentare prima di avviare nuove azioni militari, dalla guerra in Iraq ai bombardamenti in Siria o alle missioni in Africa. Ben vent’anni dopo, nell’autunno del 2021, i legali del Dipartimento alla Difesa confermeranno che quell’autorizzazione resta ancora valida.Il 18 settembre 2001, soltanto sette giorni dopo l’11 settembre, la politica decide che la guerra è l’unica risposta possibile;diciannove giorni dopo quel voto e ventisei giorni dopo l’attacco all’America, comincia il primo conflitto della serie, quello in Afghanistan. È il 7 ottobre del 2001. I talebani verranno rapidamente spazzati via, costretti a lasciare Kabul nella notte del 12 novembre. Ci rientreranno il 15 agosto del 2021, senza sparare un colpo.Per decidere la guerra ci sono voluti sette giorni, per avviarla poco meno di quattro settimane, per concluderla ci vorranno vent’anni.© 2022 People s.r.l.