Libertà è una parola a cui ci siamo talmente abituati che non ci fa quasi più effetto. Ma libertà, o meglio la sua negazione, è stata una delle forze propulsive dello sviluppo dell’intero Occidente. Si calcola che dal XVI al XIX secolo almeno 12 milioni di persone siano state strappate dall’Africa dove vivevano per arrivare in Occidente. Nel 1865, quando venne formalmente abolita la schivitù, solo negli Stati Uniti c’erano 4 milioni di schiavi. La loro storia è raccontata in questo libro Il crogiolo americano, pubblicato da Einaudi, scritto da Robin Blackburn, docente all’Università dell’Essex, collaboratore della New Left Review, uno dei più importanti studiosi della materia. In questo libro Robin Blackburn racconta non solo di come il capitalismo si sia sviluppato grazie alla schiavitù, primo vero fenomeno di globalizzazione. Ma di come la schiavitù sia stata uno straordinario laboratorio sociale, dalle piantagioni di cotone alle miniere di argento, non solo nella sua dimensione economica. Le lotte per l’emancipazione degli schiavi, dilagate alla fine dell’Ottocento in tutto il continente americano, avrebbero poi gettato i semi per quei valori, dalla libertà all’eguaglianza, alla base di ogni convivenza nel mondo contemporaneo. Fabio Poletti

Robin Blackburn
Il crogiolo americano
Schiavitù, emancipazione e diritti umani
traduzione di Luigi Giacone
2020 Einaudi
pagine 680 euro 36

Per gentile concessione dell’autore Robin Blackburn e dell’editore Einaudi pubblichiamo un estratto del libro Il crogiolo americano.

Agli inizi dell’era moderna, la conquista e la colonizzazione del Nuovo Mondo da parte degli stati europei segnarono un passo decisivo nell’«ascesa dell’Occidente» a livello globale. L’oro e l’argento che ossessionavano i conquistadores furono solo un primo incentivo. L’America era una terra sterminata e fertile, i cui popoli avevano sviluppato un allettante assortimento di prodotti alimentari e sostanze inebrianti con cui i nativi avevano ormai familiarità. I mercanti europei e i funzionari coloniali seppero inserire la pregiata produzione della cornucopia americana in quella che era ormai – per la prima volta nella storia – una bilancia commerciale di portata realmente globale. Era necessaria una grande quantità di faticoso lavoro per strappare alla terra i metalli preziosi, costruire linee di comunicazione imperiali opportunamente difese, coltivare e lavorare i prodotti più ricercati, come zucchero, tabacco, cotone e indaco. I conquistatori e i coloni europei impararono presto a fortificare e moltiplicare i loro sforzi, introducendo prigionieri africani e impiegandoli a rafforzare l’impero e aumentare la produzione di quelle ambite merci da esportare nel Vecchio Mondo. Tali sviluppi avevano le loro radici nei bisogni e nei desideri dell’Europa e nella nascita di una nuova economia politica – un nuovo tipo di stato, una nuova classe mercantile e un nuovo genere di produttori e consumatori. Lo stato assolutista e la prima economia capitalista furono alla guida di un processo di espansione imperiale e commerciale che presto sovraccaricò la forza lavoro a disposizione. Per risolvere il problema si pensò di deportare nelle Americhe milioni di africani e sottometterli a un regime estremamente duro di schiavitù dalle chiare connotazioni razziali. Tra il 1500 e il 1820, gli africani deportati nel Nuovo Mondo superarono di quattro volte il numero degli emigrati europei.
La tratta atlantica degli schiavi e i sistemi di schiavitù che essa rendeva possibili incontravano la resistenza dei prigionieri e turbavano nel contempo le coscienze di alcuni osservatori, senza tuttavia suscitare vere e proprie polemiche nell’opinione pubblica fino agli ultimi decenni del XVIII secolo. Durante i primi cento anni trascorsi dall’arrivo di Cortés, la conquista e la riduzione in schiavitù di popoli nativi, con decine di milioni di vittime, costituirono uno dei grandi disastri della storia umana: il numero dei morti è superato solo dalle perdite totali subite nella Seconda guerra mondiale. Alla fine, la «distruzione delle Indie» suscitò diffusamente una severa condanna e, come vedremo nel capitolo 1, costrinse le autorità della monarchia spagnola a scoraggiare il totale asservimento delle popolazioni indigene. Purtroppo, nello stesso periodo, venne altresì autorizzato il commercio degli schiavi dall’Africa nel Nuovo Mondo. In un primo momento, gli schiavi furono sottoposti a lavori di vario tipo. Erano domestici, giardinieri, muratori, falegnami, venditori ambulanti e parrucchieri, e alcuni riuscirono alla fine a riscattare con il denaro la loro emancipazione personale. Questo «tradizionale» modello mediterraneo di schiavitù, tuttavia, cedette gradualmente il passo a un nuovo tipo di impresa – la piantagione –, che si basava su un’estrema intensificazione del lavoro degli schiavi e della loro sottomissione. Tale istituzione avrebbe avuto una vita di quasi tre secoli, durante i quali determinò uno straordinario boom di produzione e, alla fine, enormi cambiamenti nella potenza e nella prosperità dell’Occidente in rapporto al resto del mondo.
Il presente lavoro prende in considerazione l’intera storia della schiavitù degli africani e dei loro discendenti nelle Americhe dal XVI al XIX secolo, cercando di spiegare perché gli europei ricorsero alla schiavitù e le conferirono un carattere fortemente razziale. Il libro esplora inoltre il ruolo della resistenza e della ribellione, dell’abolizionismo e della lotta di classe, che portarono poi a quegli atti di emancipazione che tra gli anni settanta del XVII secolo e gli anni ottanta di quello successivo distrussero alla fine i sistemi schiavisti del Nuovo Mondo. La schiavitù e l’abolizione possiedono proprie letterature e sono trattate come campi di studio quasi separati. Nei libri precedenti, ho cercato di colmare tale frattura. I titoli stessi di quei lavori – The Making of New World Slavery e The Overthrow of Colonial Slavery – stavano a indicare che il centro dell’attenzione era focalizzato altrove. Nel presente volume, appare altresì molto più ampio l’intervallo temporale, poiché include l’ascesa e la caduta dei nuovi regimi schiavisti di Stati Uniti, Brasile e Cuba nel XIX secolo. Si tende talvolta a scorgere negli Stati Uniti del Sud precedenti alla Guerra di secessione l’epitome dell’ordinamento schiavista nelle Americhe, benché il suo carattere, nonostante alcuni reali parallelismi con altre forme di schiavitù, fosse estremamente peculiare. I regimi schiavisti, a mio giudizio, furono sottoprodotti dell’ascesa del colonialismo e del capitalismo, il che rende quanto mai strano il fatto che la fine dell’era coloniale abbia impresso un ulteriore impulso alla schiavitù. Le due principali potenze schiaviste del XIX secolo – Stati Uniti e Brasile – si erano infatti liberate del dominio coloniale e, insieme con l’ano- mala colonia di Cuba, avevano offerto nuove prospettive ai vari sistemi di schiavitù.

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