Piove governo ladro. Da sempre un capro espiatorio è la soluzione migliore per placare gli animi davanti alle avversità della vita. Se l’antico tormentone è diventato obsoleto, chi può infatti credere che possa esserci un rapporto di causa effetto tra le condizioni meteo e l’Esecutivo, altri obiettivi sono diventati bersaglio della mala cultura popolare e soprattutto di strumentalizzazioni politiche. Da oltre un ventennio i catalizzatori dell’odio comune sono diventati i migranti, colpevoli di volerci rubare il lavoro e, da ultimo, di spargere nel mondo e soprattutto in Italia il Coronavirus. Nove mesi dopo lo scoppio della pandemia che ha messo in ginocchio il mondo, «Andrà tutto bene» non lo dice più nessuno. A fronte di una pandemia mondiale che si può combattere solo tutti insieme, prendono invece corpo antiche paure, alimentate da una certa politica che soffia sul fuoco, provocando solo fumo che annebbia la vista e la coscienza. Nè la logica dei numeri, la logica tout court e il pensiero forte anche intellettuale, sembrano scalfire inverosimili certezze. Eraldo Affinati, raffinato scrittore, e Marco Gatto, attento ricercatore, da sempre si scontrano con questi inossidabili luoghi comuni. Il loro è un osservatorio privilegiato, la scuola Penny Wirton non è solo il luogo dove si insegna gratuitamente l’italiano ai migranti. È un laboratorio dove le dinamiche sociali finiscono nel piatto del dibattito. Che la scuola, tutte le scuole, possano essere il grimaldello per disinnescare questi pregiudizi, è evidente a tutti. Eraldo Affinati e Marco Gatto, in questo dialogo serrato, analizzano punto per punto i meccanismi dell’odio contro i migranti, che avvelenano la nostra società. La sintesi del loro dialogare si fa antidoto al veleno del razzismo diffuso. Fabio Poletti

Eraldo Affinati Marco Gatto
I meccanismi dell’odio
Un dialogo sul razzismo e i modi per combatterlo

2020 Mondadori
pagine 132 euro 17 

Per gentile concessione degli autori Eraldo Affinati e Marco Gatto e dell’editore Mondadori pubblichiamo un estratto del libro I meccanismi dell’odio.

ERALDO AFFINATI: La pandemia, col suo richiamo severo e intransigente, avrebbe dovuto rafforzare la nostra consapevolezza di coralità: in parte lo ha fatto e non dovremmo lasciar passare invano il sentimento di fragilità che in tanti abbiamo provato negli scorsi mesi. Quelle fiammate di patriottismo popolare nate sui balconi dei condomini italiani rappresentano secondo me una ragione di speranza, specie quando, l’ho visto con i miei occhi, spingevano certe famiglie a lasciare sui marciapiedi davanti a casa un cesto di piccole scorte alimentari che i più bisognosi erano invitati a prelevare gratuitamente. Nessuno si può salvare pensando solo a se stesso: questo vale per i quartieri, la città, l’Italia, l’Europa, il mondo. Ecco perché la rinascita degli strumentalismi politici sulle ceneri dei morti suscita l’indignazione maggiore. Come se il Covid-19 non avesse insegnato niente ai manipolatori dell’opinione pubblica cui oggi assomigliano i cosiddetti «sovranisti», altrimenti non si spiegherebbero tutte le discussioni relative alla regolarizzazione degli immigrati: se per accettare questa norma di semplice civiltà giuridica dobbiamo ricevere in cambio l’assicurazione che soltanto così facendo avremo i pomodori ancora disponibili sulle nostre tavole, allora siamo ridotti veramente male. Il dialogo che io e te, Marco, intrattenemmo prima del coronavirus avrebbe una ragione in più per essere nuovamente sottoscritto.
M.G.: Nei momenti estremi di fragilità, certi meccanismi si presentano nella loro trasparenza. La crisi sanitaria ha esasperato e reso evidente uno stato d’animo già diffuso, che è poi la cifra o l’esito del regresso storico a cui da decenni assistiamo e che riassumerei, riprendendo le tue parole, così: «prima noi, poi tutti gli altri». Un motto che è respingente proprio per la semplificazione di cui è il frutto, quella dicotomia noi/loro di cui discuteremo nelle prossime pagine. È chiaro che questo grumo di emozioni retrive rappresenta un’occasione troppo ghiotta per chi amministra il consenso: favorisce una guerra tra poveri in cui si ripresentano gerarchie bestiali e belluine, frammenti di egoismo sociale senza controllo, disuguaglianze feroci. Il sovranismo populista sguazza felicemente in questo caos e ritrova le ragioni della propria presenza politica, facendo razzia di quelle fondamentali norme di civiltà che si fa fatica oggi a preservare.
E.A.: Quello che in particolare a me risulta insopportabile è lo scarto tra le frasi dei protocolli di legge presenti nelle bozze parlamentari e le storie delle persone che dovrebbero invece tutelare e sostenere. Può quindi forse essere utile accendere una luce sotto il volto di ciascuno. Insomma, da chi è composto il popolo dei cosiddetti «invisibili» chiamati a uscire dal cono d’ombra dove sembrano essere relegati?
Ricordo di aver conosciuto Petru diversi anni fa: ucraino di età indecifrabile senza arte né parte, abitava a nord dell’Anagnina, oltre il raccordo romano, in una baracca rattoppata col nastro isolante. Mangiava nelle mense di beneficenza ma non chiedeva l’elemosina; se qualcuno gliela dava, l’accettava. Era divorziato con figli già grandi che non vedeva mai. Una volta mi mostrò sul cellulare le fotografie del giorno di nozze: col cravattino e la giacca nera accanto alla sposa sorridente e ai parenti festanti sembrava irriconoscibile. Storie di mondi sbagliati, sogni falliti, rancori e invidie familiari, rabbia, violenza e solitudine. Frutti staccati a forza dall’albero fiorito che non è il tuo. Tradimenti e genuflessioni. Grida, accuse, carte bollate. E via di questo passo, sullo sfondo del Sol dell’Avvenire con la Falce e il Martello sulla bandiera sventolante delle Repubbliche Popolari: insomma, l’adesivo staccato del Socialismo Reale. Gomma secca di vecchie utopie.
L’autobus delle badanti che fa la spola fra Kiev e la stazione Tiburtina lo aveva portato in Italia. Stanco, disilluso, sembrava già allora una controfigura di se stesso. Dopo qualche esperienza come muratore in giro per il Bel Paese era diventato il classico vagabondo, sfuggendo persino ai radar della nuova civiltà digitale. Quando si presentò nella nostra scuola di lingua italiana in realtà non avrebbe voluto studiare; fu spinto solo dalla oziosa curiosità che può essere la bussola degli artisti, ma anche la negligenza degli smidollati. A quel tempo eravamo ospiti di una canonica nella chiesa di San Saba all’Aventino e lui si era spinto sin lì all’unico scopo di ritirare il pacco di viveri che ogni martedì, in una stanza accanto alla nostra, un impiegato della Caritas distribuiva ai poveri. Roba semplice: pane, pasta e scatolette di tonno, ma, se lo stomaco protesta, oro prezioso. Vedendo molti immigrati seduti ai banchi, ognuno di fronte al proprio docente, impegnati a scrivere e sillabare, seppur titubante s’era avvicinato e l’avevamo intercettato. Siamo abituati così: appena arrivano, li accogliamo senza chiedere i documenti. Loro acquistano fiducia, noi ci carichiamo rafforzando la motivazione. Mia moglie, dopo aver compilato la sua scheda, lo affidò a un volontario anziano, pensionato, ex dipendente pubblico. Gli fornimmo la penna, il quaderno e lo facemmo entrare in azione.
Fu quello il primo giorno di Petru che non andava in classe da chissà quando. Tuttavia capimmo subito che non era uno sprovveduto perché da piccolo aveva conosciuto l’istruzione russa: fiore all’occhiello del collettivismo. Lo confessò con un moto di malcelato orgoglio. Abituato al rigore e alla disciplina, dimostrava il naturale ossequio all’autorità costituita dell’ex cittadino sovietico: il costume anarchico che lo caratterizzava era una risposta sconclusionata e bislacca al proprio sentimento di smagata inadeguatezza. Non ci voleva molto a immaginare quali fossero gli stagni in cui annaspava: appena lo accostavi l’odore di alcol lasciava pochi dubbi. Tuttavia, dietro il ghigno sardonico del disertore, conservava un’innegabile purezza. Al massimo si poteva ubriacare col Tavernello.
Ancora oggi mi tornano in mente i suoi esercizi ordinati per colonne distinte, di qua il verbo essere, di là il verbo avere, coi relativi schemini sui tempi verbali, le caselle colorate, i disegni per illustrare il lessico del volto e delle mani: occhi, naso, bocca, dita, unghie, pollice, mignolo, anulare e medio. Venne da noi solo poche lezioni. Che, a pensarci oggi, furono persino tante. Poi inevitabilmente staccò la spina, come quasi sempre gli capitava. Che fine avrà fatto? Sarà tornato indietro, in qualche scalcinata campagna del suo Paese, magari accolto da una di quelle vecchiette che portano le candele coi lumicini nelle chiese ortodosse? Oppure è ancora fra noi, nascosto nelle intercapedini della capitale, insieme ai seicentomila che in Italia aspettano un ufficiale riconoscimento? Di una cosa credo di essere certo: ammesso e non concesso che venisse a sapere della possibilità di uscire dalla sua tana, non si metterebbe in fila per ricevere il permesso della questura.

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