C’è un passato che non finisce mai. Ufficialmente abolita nel 1964 (sic!) la segregazione razziale negli Stati Uniti continua a dividere la società. Le violenze sui neri di poliziotti oltre i limiti e oltre la legge, il movimento Black Lives Matter, sono solo la punta di un iceberg di una società multiculturale – forse quella più importante a livello mondiale – che non riesce a trovare una pacifica convivenza. Questo scenario fa da sfondo a Holy City, il romanzo opera prima di Henry Wise, pubblicato da Carbonio. Molto più di un thriller, Holy City è ambientato nella Virginia delle piantagioni di tabacco e delle paludi dove si nascondevano gli schiavi in fuga dalle catene e dalle farm dei grandi proprietari terrieri bianchi. Oggi zona di confine tra una comunità bianca disgregata e una popolazione afroamericana alla deriva. L’incipit narrativo è da crime novel. Un afroamericano viene trovato ucciso con un coltello nella schiena. I sospetti cadono su un altro afroamericano. Ma il primo a dubitarne è lo sceriffo. In Holy City, Henry Wise mette a confronto la grande città e la periferia più sperduta del Sud più profondo degli Stati Uniti. A nemmeno due ore da Richmond, la piccola contea di Euphoria sembra un altro pianeta, dove brucia ancora la sconfitta della Guerra di Secessione e resta inscalfibile il ricordo degli schiavi che, guadando le acque limacciose delle paludi, scappavano dalle piantagioni. A dispetto del nome, Euphoria è un luogo remoto e immobile dove neri e bianchi continuano a mantenere le distanze. Da una parte, la comunità nera è sostenuta da una spiritualità religiosa inattaccabile che coincide con un’esemplare forza d’animo specialmente nelle donne, ed è coesa e solidale: pollo fritto, uova alla diavola, cavolo nero, passano di casa in casa. Dall’altra, un sottoproletariato bianco, inerte e rabbioso, vivacchia tra roulotte, case mobili, motel a ore, parcheggi, aree di servizio e giganteschi mall, i non luoghi di tutto il mondo. In questo romanzo Henry Wise esaspera la sfida di dipanare grandi temi morali come colpa ed espiazione, viltà e coraggio, odio e perdono, responsabilità personale, dovere pubblico. Holy City è un thriller incandescente sull’America degli ultimi, che racconta sia come la giustizia individuale possa rivelarsi la più giusta, sia come invece possa sfociare in una vendetta sanguinosa e perversa. Il suo è un esordio maturo, dove la psicologia tormentata dei personaggi e l’estremo realismo degli ambienti rendono ancora più nitida la denuncia contro qualunque discriminazione. Fabio Poletti
Henry Wise
Holy City
traduzione Olimpia Ellero
2024 Carbonio
pagine 352 euro 19,50
Per gentile concessione dell’autore Henry Wise e dell’editore Carbonio pubblichiamo un estratto dal libro Holy City
Tom era morto tra l’una e le cinque di mattina del 20 luglio. La causa del decesso erano state le ferite da taglio alla schiena, non l’incendio. Gli inquirenti ritenevano che il fuoco fosse stato appiccato di proposito – un tentativo di coprire l’omicidio. Tra le macerie della casa era stato rinvenuto un coltello, annerito dal fuoco ma non completamente distrutto, con tracce del sangue di Tom sulla lama. Inoltre, le uniche impronte visibili sul coltello erano quelle di Zeke ma, cosa ancor più curiosa, le sue tracce comparivano anche sulla cintura di Tom. Incredibile come il fuoco – considerato solitamente un agente distruttivo – in alcuni casi fosse in grado di preservare, quasi di fossilizzare, le prove. In poche parole, avevano tutto ciò che serviva per incriminare Zeke.
“Che cosa c’è, signorina Pace?” chiese lo sceriffo Mills. “Voglio dire, Zeke. Zeke Hathom”.
“Così pare”.
“L’ho sempre considerato un brav’uomo” fece Day, stringendosi nelle braccia.
Troy si volse verso di lei. “È pronta?”.
Sedeva immobile, in lei un’espressione vuota che spinse Mills ad ammirarne la compostezza. Lui si aggiustò la cravatta, si sistemò la cintura, distolse lo sguardo. Il pensiero che quella donna non avesse più nulla, ora che Tom se n’era andato, lo riempì di rabbia. Se mai qualcuno nella sua contea si fosse approfittato di una donna come quella, avrebbe dovuto risponderne a lui.
Troy li accompagnò lungo il corridoio fino alla stanza gelata, dove erano allineate una serie di piccole celle impilate l’una sull’altra, come tanti mattoni, neanche le fondamenta stesse del palazzo poggiassero sui morti. Troy ne aprì una e ne estrasse un corpo coperto da un lenzuolo, alzando lo sguardo su Day.
“Mi dispiace per le condizioni in cui si trova” disse. “La avverto”.
Lei inspirò, annuì, e lui sollevò il lenzuolo, ma Day scoppiò a piangere, vedendo il volto di Tom ormai senza più gli occhi.
“Piccolo” esclamò. “Piccolo mio”.
Nel modo in cui lei lo guardava non c’era solo cordoglio. Si sentiva pervadere da un’intima eccitazione che le serrava i fianchi, mentre osservava i suoi resti, ricordando quell’ultima volta, sapendo che non ce ne sarebbe stata un’altra. Piccolo mio. Adesso riusciva a sentire Tom che la guardava, che la attendeva in quella dimensione in cui lui esisteva solo come un’eco. È l’ultima volta in cui vedrò il corpo di Tom Janders. Ora era vero dolore.
“Ci serve la sua dichiarazione per il referto, signorina Pace” disse Troy.
“Posso…?” chiese lei, toccando il lenzuolo.
Risollevò il telo e guardò verso l’inguine, portandosi le mani alla faccia. Questa è l’ultima volta.
“Sì” disse, ricoprendolo. “È lui. È Tom”.
“Per essere precisi, dica cortesemente il suo nome completo”. Tra le lacrime, sputò fuori un “Tom Janders”. Mills le mise
una mano sulla schiena e lanciò un’occhiata a Troy. La ragazza aveva già fatto abbastanza.
“Signorina Pace” disse Mills. “Signorina Pace, non ci serve altro. Adesso possiamo andare”.
Quel senso di eccitazione era aumentato e si era diffuso, e adesso lei sentiva anche qualcos’altro, un leggero malessere che si estendeva allo stomaco. Lasciò all’improvviso la stanza gelata con la stessa agilità con cui Mills l’aveva vista precipitarsi nella casa in fiamme. La ritrovarono in corridoio.
“Sta bene?” chiese lo sceriffo Mills.
Lei annuì, stringendosi nelle braccia, il viso struccato e arrossato, imbruttito e chiazzato dal pianto.
“Mi dispiace che abbia dovuto assistere a questo” disse Troy. “Le mie condoglianze”.
Mills si voltò verso Troy. “È tutto?”.
“Sì, signore”.
“Quando restituirete il corpo per la sepoltura?”.
“Possiamo avviare i preparativi oggi stesso, se è ciò che decide di fare la famiglia. Saremmo felici di organizzarlo qui. La signorina Pace e la madre del defunto possono chiamarmi per prendere accordi”.
Troy le allungò il suo biglietto da visita e una brochure dell’agenzia di pompe funebri di cui era proprietario. Si trovava sull’altro lato dell’edificio, e la facciata, solenne e piacevole, dava su una strada costeggiata da alberi di magnolia.
Day sembrò riscuotersi da una sorta di realtà onirica, incrociò le braccia sul petto, alzò lo sguardo sullo sceriffo, e ricominciò a piangere, una tristezza che Mills poteva comprendere. Aveva subìto una perdita simile. Non era sua abitudine abbracciare le fidanzate delle vittime, ma lasciò che le sue braccia la cingessero con fare paterno, dicendole “Su, su” e dandole qualche pacca sulla schiena. Poteva sentire le sue lacrime umide attraverso il colletto della camicia della divisa, percependo, sotto al trucco e al profumo, l’aroma di quel dolore femmineo così terreno, fatto di notti insonni. Quando la donna sembrò aver superato il momento peggiore, le disse: “Procediamo”.
La strada ondeggiava e si curvava gradevolmente nonostante attraversasse un paesaggio privo di ogni grazia, fatto di colture stremate e ingiallite dalla siccità e ampi torrenti e acquitrini, simili a laghetti, dalle sponde rosso vivo e popolati da pesci gatto grossi come un bambino. La macchina ronzava, mentre urtava contro le cunette e le crepe nell’asfalto dell’au- tostrada.
Mills ruppe il silenzio: “Quello che non capisco è perché mai qualcuno, di tanta gente, avrebbe voluto uccidere proprio Tom”.
Titolo originale Holy City
© 2024 by Henry Wise
© 2024 Carbonio Editore srl, Milano