La guerra dei diamanti, del petrolio, delle materie prime, quelle per i confini e ancora il terrorismo jihadista. Non c’è pace nel continente africano che a metà del secolo scorso aveva già vista la più imponente lotta di liberazione e per l’indipendenza. Mario Giro, docente di Storia delle Relazioni Internazionali a Perugia, viceministro degli Esteri tra il 2013 e il 2018 nei governi Renzi e Gentiloni, membro della Comunità di Sant’Egidio, in questo Guerre nere appena edito da Guerini e Associati, ci racconta le cose meno note dei conflitti africani. Invitandoci a dimenticare tutti gli stereotipi, a partire da quello che considera come tribali tutte le guerre del continente nero. Una specie di assioma vagamente razzista assai diffuso. I conflitti africani, soprattutto quelli degli ultimi anni, sono invece frutto della modernità e della globalizzazione. Con giganteschi interessi economici che muovono dalle grandi capitali finanziarie del mondo. Alla fine si tratta di grandi conflitti privati, dove ai trafficanti di armi del mondo si vedono i signori della guerra che padroneggiano e spadroneggiano nel territorio. Speculazioni, traffici di vario tipo, contrabbando di tutti i generi e contractors stranieri senza bandiera e al di fuori di ogni legge, fanno da corollario a un sistema assai instabile in cui sguazza come un pesce nell’acqua il fondamentalismo religioso e il terrorismo di matrice islamica. Fabio Poletti   

Mario Giro
Guerre nere
Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea

2020 Guerini e Associati
pagine 280 euro 22,50

Per gentile concessione dell’autore Mario Giro e dell’editore Guerini e Associati pubblichiamo un estratto del libro Guerre nere Ribellione armata come movimento sociale.

La guerra della Sierra Leone (1991-2002), una delle più brutali del ciclo «Mano River», ruotava attorno allo sfruttamento dei diamanti, in particolare quelli del settore alluvionale informale non controllato dalle multinazionali. Migliaia di giovani senza futuro erano già coinvolti come minatori informali e fu facile per il Revolutionary United Front (Ruf) e per il suo leader (l’ex caporale Foday Saybana Sankoh) reclutarne un gran numero. La situazione si complicò nel 1992 quando il presidente Momoh fu rovesciato dai suoi stessi militari, anch’essi interessati al settore diamantifero. È in quel frangente che s’iniziò a parlare di «sobels» cioè di soldati-ribelli, tanto era profondo il caos nel paese, a cui partecipava anche Executive Outcomes, una delle prime compagnie di sicurezza private operanti durante un conflitto (nota 17). In un quadro di particolare confusione politica, il Ruf (prendendo a modello il National Patriotic Front of Liberia di Charles Taylor) si propose come il movimento dei giovani sierraleonesi esclusi. Diremmo oggi che il Ruf proponeva un programma populista radi- cale e anti-etnico. Come avvenuto in Liberia, l’idea propugnata era che gli esclusi (ormai dei fuori-classe e fuori-etnia) si fossero conquistati il diritto di strappare con le armi la loro parte di prosperità. Si tratta di una mentalità fondata «sulla sopravvivenza dei singoli e sull’assenza dello Stato, inculcata dalla vita nei campi diamantiferi lungo il confine» (nota 18). Un po’ al modo delle sette revivalistiche, i giovani reclutati dal Ruf dovevano passare per un «risveglio»: la presa di coscienza di non poter più sprecare la propria esistenza in un misero accampamento di minatori illegali ma di partecipare alla vita comune di un gruppo armato alla ricerca di una riabilitazione sociale che poteva venire solo dalla vittoria militare. Niente di più lontano dalla narrazione di «guerre etniche» propalate dai media occidentali. Tali giovani furono spinti a far ricorso a nuove motivazioni interiori in un mondo di esclusione sociale: dimenticare l’etnia e le classi di età per partecipare a un’innovativa forma d’identità individuale e collettiva. Ciò che sembra antico nei mezzi (effettivamente selvaggi) utilizzati per la guerra, è molto moderno in termini di costruzione identitaria. La violenza divenne lo strumento del presunto ristabilimento della giustizia, superando la frustrazione del rifiuto sociale. Ciò spiega la potenza di coesione del Ruf davanti a forze preponderanti e meglio equipaggiate. Alla fine è questo il motivo per il quale si decise di negoziare con esso, sia nel 1996 che nel 1999. Dopo l’ultimo accordo e l’ennesimo fallimento dell’implementazione, ripresero i combattimenti, terminati soltanto con l’intervento dell’esercito britannico voluto da Tony Blair.
Più di dieci anni di guerra contro un movimento armato di giovani e adolescenti è davvero molto. La resilienza del Ruf non si giustifica se non con il fatto che incarnava la protesta di una buona fetta di popolazione (i giovani esclusi) che, malgrado le sue brutalità, riusciva pur sempre a esprimere una sensibilità sociale comprensibile e diffusa.
L’idea che le guerre africane siano dovute al «brutalismo» (nota 19) insito nella natura dell’uomo e della donna neri oppure all’etnicismo esasperato, trova un limite proprio davanti a tali vicende. Certamente i conflitti liberiano e sierraleonese sono stati lunghi e orribili, causando un alto numero di vittime, traumatizzando i rispettivi popoli e dividendoli secondo trincee etniche. Tuttavia rimane importante provare a comprenderne le radici e i risvolti sociali dovuti al tentativo di rovesciare un ordine costituito ritenuto ingiusto. Non va dimenticato, ad esempio, che gli autoctoni liberiani avevano avuto la cittadinanza piena solo nel 1904 e che fino ad allora erano stati trattati come stranieri in patria dai loro «padroni» afro-americani arrivati grazie alle compagnie filantropiche d’oltreoceano. Le distanze e i pregiudizi continuarono a lungo e, così come avveniva nella vicina Sierra Leone, era una minoranza a detenere la quasi totalità delle ricchezze del paese. Si tratta di conflitti della diseguaglianza sociale più che di guerre etniche o «dei diamanti» come sono state rappresentate. I diamanti, pur utilizzati per farle durare nel tempo, non ne costituirono la causa principale ma al massimo il detonatore.
Peraltro nulla avviene automaticamente. L’emersione delle reti informali nelle varie sfere economiche (ad esempio il commercio illegale dei diamanti in mano a intermediari libanesi) non è detto che provochi immediatamente la criminalizzazione dello Stato o la sua decomposizione. Può determinarsi un’espansione burocratica del clientelismo a favore del rafforzamento di istituzioni redistributive, com’è avvenuto in Nigeria ad esempio. Oppure può capitare l’inverso, come nel caso liberiano e sierraleonese: a causa della loro alleanza con pezzi di economia informale e/o criminale, le istituzioni si disgregarono al punto di sparire quasi del tutto. Al loro posto sorsero una specie di «cartelli» di interessi, i warlords appunto, una forma più leggera e adattata ai tempi di controllo del territorio e delle sue risorse. In altre parole: dal momento che dopo la Guerra fredda il mantra internazionale era «liberalizzare e competere», diventava possibile accedere al potere creando alleanze fuori dalle regole, per accaparrarsi le risorse e partecipare alla rete globale del mercato. Da qui fenomeni ibridi. Manipolare il ricorso alla violenza; legarsi a commerci criminali o alle loro linee di trasporto o reti di smercio; reclutare popolazione in base al malcontento verso le élite che non redistribuiscono più; competere in termini di costo del lavoro utilizzando schiavi o servi; inserirsi nel mercato delle materie prime per canali paralleli: con la globalizzazione tutto era possibile. La lotta politico-militare divenne così parte di una strategia di sopravvivenza e alla fin fine una vera e propria forma di imprenditorialità.

17 Oggi diremmo «contractors».
18 In M. Buttino, M.C. Ercolessi, A. Triulzi, Uomini in armi. Costruzioni
etniche e violenza politica, Napoli 2000, p. 196.
19 Rubo il termine ad Achille Mbembe

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