Si fa presto a dire diritto allo studio per gli stranieri, concetto comunque irrinunciabile. Ma non ci sono solo le barriere linguistiche a dividere chi sta in cattedra e chi viene dall’altra parte del mondo per imparare l’italiano e avere un pezzo di carta, i documenti necessari per rimanere nel nostro Paese, l’unico pezzo di carta che conti davvero. Ci sono barriere a volte insormontabili che riguardano religione, cultura ma pure il vissuto dei migranti sradicati dalle loro radici, venuti qui per piantarle in una terra che sperano migliore. E se la scuola, comunque sia, può essere l’isola felice dell’accoglienza, in classe arriva anche il mondo di fuori, fatto di razzismo e sfruttamento sul lavoro, pregiudizi e porte sbattute in faccia per un passaporto o un colore della pelle diverso. Alessandro Gazzoli, in questo Estranei pubblicato da Nottetempo, racconta la sua esperienza di insegnante per stranieri, appunto gli estranei. Alessandro Gazzoli è nato a Edolo, provincia di Brescia, in Valcamonica, nel 1986. Dopo la laurea e il dottorato in Lettere, insegna da alcuni anni in un centro di istruzione per adulti in provincia di Trento. Non è stata un’irrefrenabile vocazione all’insegnamento che ha portato Alessandro Gazzoli a fare il professore di italiano in un Centro per l’Educazione degli Adulti frequentato in prevalenza da immigrati, né una qualche predilezione per quel “maelstrom educativo rifuggito da tutti” che è una scuola per stranieri. È stata piuttosto una miscela di urgenze e caso a prenderlo in contropiede e fargli imboccare questa via spiazzante, con la sua altalena di entusiasmi e avvilimenti, intralci da appianare e domande da porsi. Che cosa significa insegnare in una classe dove convivono nazionalità e culture che sembrano incompatibili tra loro? Che forma prendono i dialoghi e i pregiudizi quando si mettono insieme destini e idee che altrove non si incontrerebbero mai? Dalle tragicomiche telefonate d’inizio anno scolastico per raccogliere le iscrizioni alle discussioni appassionate ed estenuanti su Dio, dal cammino trionfale del Marocco durante i Mondiali di calcio del 2022 alla scomparsa di una studentessa indiana che la famiglia vorrebbe costringere a un matrimonio combinato, Alessandro Gazzoli racconta con humor, autoironia e alla larga da ogni tono enfatico la realtà – decisamente “fuori dal comune” – che incontra tra i banchi di scuola. Un libro che ci porta dentro le vite degli altri, quando smettono di essere solo degli “estranei” per chi li guarda. Fabio Poletti

Alessandro Gazzoli
Estranei
Un anno in una scuola per stranieri
2024 Nottetempo
pagine 180 euro 15,50 ebook euro 10,49

Per gentile concessione dell’autore Alessandro Gazzoli e dell’editore Nottetempo pubblichiamo un estratto dal libro Estranei

Bismillah

Si potrebbe cominciare così: con una studentessa siriana che inneggia a Hitler e all’eliminazione totale degli ebrei dalla faccia della Terra come soluzione definitiva a un morbo che affligge l’umanità da troppo tempo. Mi ci vogliono alcuni secondi – alcuni, ma non tanti – per capire che non si tratta di una battuta, né tantomeno del delirio di un’isolata negazionista o del lamento estemporaneo di un’antisemita repressa. È la visione di un mondo, che appartiene a una grossa fetta di abitanti di questo pianeta e che riassume il pensiero condiviso da milioni di persone, persone che pensano esattamente l’opposto di quello che ho sempre sentito ripetere fin dall’infanzia, di quello che, più o meno consapevolmente, ho sempre ritenuto sacro patrimonio del genere umano, al di là di ogni distinzione di sesso, lingua, razza e religione.
Con gli anni, mi sono abituato a sortite come questa, proferite sempre con un certo sussiego nei confronti dell’europeo-occidentale-benpensante da me rappresentato in quel frangente; e dunque mi sono
assuefatto al progressivo abbassamento della soglia dello stupore, senza riuscire però a eliminare del tutto il cosiddetto effetto-sorpresa, che si ripresenta all’incirca una volta al mese, talora con un’intensità tale da stordire le mie facoltà cognitive e suscitare un rigurgito di fastidio e disprezzo talmente forte da farmi augurare la morte per le persone che ho davanti. Come pochi giorni fa, quando Yara, una ragazza pakistana (la stessa che all’iscrizione aveva confessato di essere qui “to fulfill my dreams”) mi dice, mentre leggiamo la vita di Malala Yousafzai per riempire le maledette ore di Educazione civica, che “questa storia no vera”, che in Pakistan tutti sanno che Malala è un’agente sotto copertura, infiltratasi lì per distruggere la vita delle donne, ma per fortuna qualcuno l’ha scoperta appena in tempo, sparandole in testa prima che mettesse in pratica i suoi piani diabolici.
La rabbia mi prende alla gola, mi toglie quasi il respiro, e poi me la trascino addosso tutto il giorno, fino a pomeriggio inoltrato, quando devo tenere una conferenza su Natalia Ginzburg in una scuola superiore di Trento e, mentre aspetto che la sala vada a poco a poco puntellandosi dei radi presenti, inizio a incorniciare di “Yara vaffanculo” la scaletta dell’intervento. Ho un’espressione concentrata, rispondo ai cenni di saluto delle persone che cominciano a sedersi, mi verso dell’acqua nel bicchiere, riordino i fogli, e intanto vado avanti a vergare altri sette, otto “Yara vaffanculo”. Non posso farne a meno, se smetto mi tornano subito in mente i suoi occhi beffardi e il sorrisino supponente con cui mi ha risposto quando le ho chiesto di spiegarmi chi avrebbe pagato Malala, come avrebbe fatto a introdurla in Pakistan, con quale obiettivo, se tutto il grande complotto consisteva solo nel piazzare una ragazzina a rivendicare il diritto delle donne ad andare a scuola. Rivedo Yara che alza le spalle, che scuote la testa nel modo incomprensibile dei pakistani, e alla fine taglia corto, dicendo che non posso costringerla a pensare un’altra cosa – “Questo mio idea”. È vero, questa è la sua idea e non posso fargliela cambiare, ma mi pento ugualmente di aver telefonato a suo padre a settembre per lasciarla iscrivere a scuola, di averla incoraggiata a prendere il pullman da sola nonostante la sua paura di insulti razzisti, ho sbagliato ad accogliere a braccia aperte una persona così, che non ha nessuna voglia di mettersi in discussione o semplicemente di integrarsi, era meglio lasciarla a vegetare in casa in attesa del solito matrimonio combinato col cugino. Ma soprattutto ho sbagliato prima, a scegliere questo lavoro per il quale non ho mai sentito nessuna vocazione, nessuna volontà di prodigarvi le mie migliori energie, neppure un briciolo di amore o orgoglio per quel posto fisso che alla fine mi dà pur da mangiare. E chissà che cosa penserebbe Natalia Ginzburg, se potesse sentirmi. Intanto però mi presentano al pubblico, tocca a me parlare e per un paio d’ore non ci penso più. Yara se ne va davvero a quel paese, a galleggiare nell’altrove, insieme a tutte le maledizioni che le ho lanciato.

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