La strada per la salvezza di migranti e richiedenti asilo, in fuga dalla fame e dalla guerra, passa dalla Bosnia che non è più solo uno stato nato dalla frantumazione della ex Jugoslavia ma è diventato insieme al Mediterraneo una delle porte d’accesso all’Europa. In questo libro Bosnia: ultima frontiera pubblicato da Eris Edizioni, Gabriele Proglio, di cui pubblichiamo una parte dell’introduzione, ha raccolto scritti e testimonianze da questa zona di confine così vicina a noi, anche se molti fanno di tutto per cercare di tenerla lontana.
Silvia Maraone, della Ong Ipsia, scrive della storia e dell’evoluzione dell’area. Emanuela Zampa, fotografa specializzata in migrazioni e confini, racconta dei campi di Boric ́i, Bira e Sedra. Mariapaola Ciafardoni, presidente dell’Associazione Almaterra, analizza le mille contraddizioni della Bosnia. Benedetta Zocchi, dottoranda alla Queen Mary University, racconta del game, il gioco – questo il termine usato da chi lo intraprende – per giungere oltre frontiera senza essere fermati dalle polizie. Gian Andrea Franchi, ex professore e attivista, affronterà i temi dei corpi delle persone migranti, tra dolore ed evocazione della verità. La riflessione di Lorena Fornasir, psicologa ed attivista, riguarda il lato più doloroso delle migrazioni, il trauma di violenze continue, respingimenti e torture. Fabio Poletti

a cura di Gabriele Proglio
Bosnia: ultima frontiera
Racconti dalla rotta balcanica
2020 Eris Edizioni
pagine 68 euro 6

Per gentile concessione dell’autore Gabriele Proglio e dell’editore Eris pubblichiamo un estratto dell’introduzione del libro Bosnia: ultima frontiera.

Il viaggio per la Bosnia è stato molto lungo. Il primo almeno, interminabile. Ore e ore di automobile, alcune delle quali, in Slovenia, sotto una tempesta di neve. Il tempo era riempito dai pensieri di cosa avrei trovato sul confine. Passata Rijeka procedo in direzione Karlovac, poi devio verso sud. Ormai è buio quando arrivo alla frontiera. Una colonna di auto attende in fila. I controlli, prima di uscire dall’Europa, sono doppi. Un cane si muove lento tra le automobili. Un altro, poco più in là, è sdraiato per terra e aspetta con me. È il mio turno. Allungo la mano per consegnare il passaporto rosso. Poco dopo un poliziotto bosniaco me lo ridà indietro. Tutto a posto, posso passare.
A portarmi su questo confine, dopo aver lavorato a Ventimiglia, è il progetto che dirigo all’Università di Coimbra, al Centre for Social Studies. Si chiama Mobility of memory, memory of mobility. The Western Mediterranean Crossings in the XX and XXI centuries ed è stato finanziato dalla Fundação para a Ciência e a Tecnologia, dal 2017 al 2023. L’obiettivo è studiare, dal punto di vista della storia culturale e orale, i tanti confini del Mediterraneo concentrando l’attenzione sulla mobilità e sul ruolo delle memorie.
Ovviamente la Bosnia non è solamente una frontiera interna ai Balcani, ma anche una tra le più importanti nel Mediterraneo. Due sono gli eventi che hanno determinato il cambiamento dei passaggi migratori: la formalizzazione del blocco della traiettoria centrale, dalla Libia/Tunisia verso la Sicilia, con gli accordi del Ministro Minniti poi ripresi da Salvini e il patto siglato dall’Europa con la Turchia di Erdogan nel 2016. Da quel momento, la via per arrivare in Europa – la più “sicura” – è la rotta Balcanica.
Arrivato a Bihac scendo dall’auto e prendo lo zaino. Nevica un po’. Faccio alcuni passi e davanti a me trovo un muro grigio. È pieno di colpi, colpi di mortaio. È il segno indelebile delle violenze ancora vive nelle coscienze, tramandate di generazione in generazione, sottovoce, in un silenzio pieno di sofferenza e dolore, di rabbia e imbarazzo. Lasciate lì, visibili a tutti, sono le ferite di guerra. Ma non se ne può parlare, non se ne deve parlare. Quel muro lo ritrovo ovunque, sulle case e negli animi di chi incontro.
A un trauma non risolto che ha generato migrazioni verso altri Paesi se ne sovrappone un secondo, di persone in fuga da guerre, instabilità politiche, crisi economiche, disastri ambientali, disoccupazione e mancanza di possibilità. L’Europa era ed è, per tantissimi, il luogo della salvezza, della pace. La sovrapposizione di tempi verbali – per chi lo era ieri e per chi oggi – non genera più empatia. Forse una volta sì, all’inizio di quella che fu chiamata “emergenza umanitaria”. Adesso invece si dimentica per non ricordare che, in qualche modo, c’è qualcosa di simile tra l’essere stati profughi dal 1992 al 1995 e la condizione di chi arriva oggi in Bosnia. Perché anche se le vicende storiche sono diverse, i vissuti di chi scappa sembrano costruire una medesima geografia delle emozioni: la perdita definitiva di ciò che era casa e con lo spiazzamento perenne nel luogo d’arrivo. Si è continuamente fuori posto, non c’è tregua. E, dopo aver fatto il primo passo, indietro non si può tornare. Quando il viaggio fisico ha consumato tutti i chilometri inizia a divorare le ore. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, quello spostamento di significati – rispetto a come si era – riguarda un equilibrio precario, mai definito. È un’immagine di sé allo specchio che non convince, un gioco di appartenenze in cui il mosaico non è mai finito, è perennemente incompleto.
Chi giunge fin qui, sulla soglia d’Europa, non ha ancora potuto e forse voluto ricordare il viaggio. E se lo ha fatto, confrontandosi con chi incontra nei campi oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) o per la strada, è stato per parlare dei confini superati, delle città in cui ha dormito, degli amici incontrati nel tragitto. Ma si guarda avanti, e mai indietro. La nostalgia è una malattia dell’Europa. Nel momento del viaggio tutte le energie servono per superare quei monti così alti, per fuggire al controllo della polizia croata, per resistere settimane nei boschi. Fino a Trieste. Solo quando si avranno entrambi i piedi nell’Unione, solamente allora si potrà ripensare al futuro, al da farsi, talvolta senza riuscirci. Non è un caso che tante persone, superate tutte le frontiere, siano preda di vere e proprie crisi di panico, di ansie e fobie, dell’urgenza di agire subito prima che qualcuno, con una divisa qualsiasi, li rispedisca indietro.

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© Gabriele Proglio, Silvia Maraone, Emanuela Zampa, Mariapaola Ciafardoni, Benedetta Zocchi, Gian Andrea Franchi, Lorena Fornasir