La decisione della Corte Suprema americana che ha lasciato i singoli stati a legiferare in tema di aborto, con gli stati del Sud che in massa lo hanno dichiarato inammissibile anche nei casi più gravi, è solo la punta dell’iceberg di una cultura fin troppo diffusa, che si abbevera ai valori stantii di una società che si vorrebbe dominata dai bianchi. Se la discriminazione razziale, di fatto è stata permessa se non addirittura sostenuta fino al 1965, sotto la cenere degli Stati Uniti continuano ad infiammare le politiche contro gli afroamericani, i nativi e gli immigrati in generale.Fabio Poletti Giovanni Borgognone America bianca La destra reazionaria dal Ku Klux Klan a Trump 2022 Carocci pagine 168 euro 15
Donald Trump è stato forse l’esponente politico più a destra degli ultimi anni. Ma come dimenticare il voto da senatori di Bill Clinton e pure Barack Obama favorevoli al famigerato muro al confine col Messico. E che dire della vicepresidente democratica e afroamericana Kamala Harris, che solo un paio di anni fa invitava i migranti a stare a casa loro. Il racconto di questa America, che vive di pregiudizi e pure di sentimenti cospirazionisti, lo si trova nel libro di Giovanni Borgognone, America bianca, pubblicato da Carocci. Il razzismo e il nazionalismo bianco, che in passato rimanevano sottotraccia nel discorso pubblico, ora vengono esibiti e alimentano la polarizzazione politica. Il libro indaga in quest’ottica le trasformazioni della destra reazionaria americana, dal Ku Klux Klan alle milizie, fino all’odierna Alt-Right, focalizzandosi sui temi che hanno connotato il suo percorso, quali il timore di una perdita del primato bianco nel paese e l’ostilità nei confronti del femminismo. E mostra come – grazie al decisivo apporto dei media digitali – negli ultimi decenni sia cambiato soprattutto lo stile comunicativo dell’ideologia etnonazionalista: attraverso velate allusioni e accenni a immaginari complotti, essa ha esteso il suo raggio d’azione a milioni di persone ed è approdata al Partito repubblicano.Per gentile concessione dell’autore Giovanni Borgognone e dell’editore Carocci pubblichiamo un estratto dal libro America bianca.
Etnostato Dall’inizio del XXI secolo, molti cittadini americani bianchi cominciarono a trasferirsi in piccole cittadine etnicamente omogenee. Intendevano realizzare in tal modo un loro mondo ideale: comunità arcadiche nelle quali fosse possibile tenere aperta la porta di casa, tutti si chiamassero per nome e i ragazzi frequentassero scuole pubbliche dotate di standard pari a quelle private. Traevano ispirazione per tale progetto di vita da un passato mitizzato: auspicavano infatti il ripristino dei valori degli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Davano pertanto luogo a costellazioni di agglomerati extraurbani nei quali cercavano rifugio da un paese di cui temevano la rapida trasformazione demografica (Benjamin, 2009). Su queste stesse basi, nelle sue pubblicazioni pseudoaccademiche così come nelle chat online, la nuova destra reazionaria delineava quale proprio orizzonte politico l’etnostato bianco, Whitopia di una società chiusa, con confini tenuti sotto stretta sorveglianza, abitata da un popolo al 90% omogeneo. Il futuro avrebbe dovuto reincarnare per molti versi un mitico passato connotato da purezza, comunità e appartenenza. I nazionalisti bianchi auspicavano la rigenerazione di un paese composto in larga maggioranza da “libere persone bianche” e “di buon carattere”: frequentemente veniva ripresa questa formula, tratta dal Naturalization Act del 1790, la prima legge che aveva stabilito criteri uniformi per l’acquisizione della cittadinanza statunitense, a dimostrazione, secondo gli alt-righters, che i Padri fondatori avevano concepito la Repubblica americana come etnostato bianco ( Jones, 2018). La Whitopia non era mera utopia, bensì si ispirava a paradigmi storici reali, come la Polonia o l’Estonia. Ancor più importante era la visione di un modello nazionale: gli alt-righters erano convinti che gli Stati Uniti, prima del 1965, e dunque della desegregazione, del multiculturalismo, del femminismo e della globalizzazione, fossero già stati un etnostato, ancor più che nel 1790. A complicare la restaurazione della nazione bianca vi erano tuttavia le dimensioni del paese, il radicamento degli afroamericani, la presenza delle popolazioni native, l’espansione delle comunità immigrate. Dal punto di vista di molti alt-righters l’unica via di uscita passava pertanto dalla creazione di un autonomo etnostato bianco. Il caporedattore di “Counter-Currents” Greg Johnson, in un articolo intitolato The Slow Cleanse (2014), illustrò il proprio progetto per realizzare una “patria omogeneamente bianca”. Respinse innanzitutto la bellicosità neonazista: la Alt-Right, a suo avviso, non si sarebbe dovuta lasciare irretire dagli scenari apocalittici alla Aryan Nations. Johnson auspicava piuttosto un processo di pulizia etnica “ben pianificato” e “ordinato”. Egli riteneva che, nel giro di mezzo secolo, il consolidamento di un etnostato bianco si sarebbe rivelato un obiettivo verosimile, grazie alla consapevolezza da parte della popolazione americana della necessità di chiudere i confini, di deportare gli immigrati illegali e di porre fine ai programmi di welfare per i “non cittadini”. Indotti da una concezione politica sempre più connotata dalla divisione in gruppi identitari, i neri si sarebbero riallocati in un proprio etnostato nel Sud. Nel contempo, i bianchi avrebbero introdotto politiche favorevoli alla natalità, come la proibizione dell’aborto, i sussidi per la maternità e i benefici fiscali per le coppie sposate. Secondo Johnson, i bianchi si sarebbero trovati, in un futuro ormai prossimo, a considerare moralmente accettabile questo percorso graduale di “pulizia etnica”, che a sua volta avrebbe consentito realisticamente la creazione di una patria bianca in pochi decenni (Johnson, 2014; Main, 2018, p. 205). I nazionalisti bianchi come Johnson spesso avvertivano i loro lettori che i programmi per realizzare un etnostato bianco non si basavano affatto sul suprematismo, bensì sul rispetto nei confronti di ogni razza come distinta entità culturale e biologica. La Alt-Right esibiva dunque l’etnonazionalismo come una filosofia politica avente l’obiettivo di delineare la convivenza di razze e nazioni differenti, in accordo con le specifiche identità. Nel contempo prospettava una visione dal notevole potenziale emotivo: evocava infatti fattori culturali molto radicati, come la solidarietà di gruppo, l’autodeterminazione, la ricerca della comunità. L’idea dell’etnostato alludeva a un luogo privo di alienazione, nel quale tutto è familiare e comprensibile. Nell’esporre il proprio pro- getto Johnson ammetteva che in realtà un minimo di coercizione sociale sarebbe stato necessario, richiesto dallo spostamento in massa di risorse umane e finanziarie da una parte all’altra del paese. Tuttavia, in vista dell’obiettivo finale, sarebbe risultato sopportabile e giustificato (Johnson, 2015; Ingram, 2017; Shaw, 2018). Sono fin troppo evidenti le consonanze tra le misure ritenute necessarie dai nazionalisti bianchi per la costituzione del loro etnostato e le politiche messe in atto tra il 2017 e il 2020 dall’amministrazione repubblicana di Donald Trump. Il bando contro i rifugiati provenienti da paesi islamici, la separazione delle famiglie degli immigrati illegali, le prolungate detenzioni, il progetto di prosecuzione della costruzione della barriera al confine meridionale: furono tutte iniziative che, sia pure presentate all’elettorato repubblicano moderato quali strette appli- cazioni del principio “legge e ordine”, apparvero nel contempo ai militanti della Alt-Right come strategie ispirate a ben precisi programmi demografico-razziali. La nozione di ethno-state era entrata nel dibattito intellettuale nel 1969, con un articolo apparso sull’“Africa Quarterly”, nel quale venivano prese in esame le pressioni etnonazionaliste sugli allora emergenti governi indipendenti. L’uso del termine fu poi acquisito dalla destra reazionaria americana a partire dai primi anni Novanta. Nel 1992 uscì The Ethnostate: An Unblinkered Prospectus for an Advanced Statecraft, firmato da Wilmot Robertson, pseudonimo di Sumner Humphrey Ireland. Questi era stato già autore, vent’anni prima, del volume di 600 pagine, venduto in oltre 100.000 copie, The Dispossessed Majority, divenuto un classico nei circuiti suprematisti, considerato da David Duke uno dei libri più brillanti del secolo. La tesi di fondo era che i bianchi fossero stati sopraffatti nei loro paesi dalla presenza di «minoranze non assimilabili» di «neri, asiatici, ispanici, greci, italiani meridionali, arabi, amerindi ed ebrei». Robertson giungeva alla conclusione che ai non bianchi dovessero essere negate le protezioni costituzionali, a causa della loro inferiorità razziale e culturale. © copyright 2022 by Carocci editore S.p.A., Roma