Un velo nero è sceso sull’Afghanistan da quando due anni fa gli Stati Uniti hanno lasciato dopo vent’anni il Paese, tornato in mano ai Talebani, gli studenti delle scuole coraniche, i più intransigenti e osservanti discepoli della cultura islamica. Alle donne è proibito tornare a scuola, chi ascolta musica o suona uno strumento può essere perseguito. Ma l’Afghanistan non è stato sempre così, come ci racconta Thomas Barfield, in questo Afghanistan, pubblicato da Einaudi. Thomas Barfield è professore alla Boston University dove ha la cattedra di Antropologia.
In questa storia dell’Afghanistan lo studioso intreccia geografia, politica, economia e cultura per descrivere le dinamiche interne e le relazioni col mondo esterno di una nazione estremamente complessa. Dopo aver illustrato la sconcertante diversità dei gruppi tribali ed etnici afghani – spiegando cosa li unisce nonostante le differenze regionali, culturali e politiche che li dividono – Thomas Barfield dimostra quanto per secoli sia stato relativamente facile governare tutti questi popoli quando il potere era concentrato in una piccola élite dinastica, e come questo fragile ordine politico sia poi crollato nel XIX e XX secolo, quando i governanti dell’Afghanistan mobilitarono le milizie rurali per espellere prima gli inglesi e poi i sovietici. L’insurrezione armata sbaragliò gli occupanti, ma minò l’autorità del governo afghano e rese il paese sempre più ingovernabile. Le fazioni armate interne innescarono una guerra civile, dando origine al governo clericale dei Talebani e all’isolamento dell’Afghanistan dal mondo. Barfield esamina infine i motivi per cui l’invasione americana, sulla scia dell’11 settembre, riuscì a rovesciare rapidamente i Talebani e perché quella facile vittoria fece credere agli Stati Uniti che fosse altrettanto facile costruire un nuovo stato. Fabio Poletti Thomas Barfield Afghanistan Una storia politica e culturale Traduzione di Luigi Giacone 2023 Einaudi pagine 528 euro 35Per gentile concessione dell’autore Thomas Barfield e dell’editore Einaudi pubblichiamo un estratto dal libro Afghanistan.
I talebani furono estromessi dal potere dopo che l’organizzazione al-Qaeda di Osama bin Laden aveva lanciato dall’Afghanistan l’attacco dell’11 settembre, e la caduta del loro regime era stata un danno collaterale. Non volendo certamente che la storia si ripeta, nell’accordo con gli Stati Uniti si sono impegnati a non dare rifugio ai terroristi. Tuttavia, non hanno mai rotto i loro legami con al-Qaeda, e probabilmente l’accoglieranno di nuovo nel paese insieme a una serie di altri gruppi simili. Sirajuddin Haqqani, un uomo che ancora compare su un manifesto dei terroristi più ricercati con una taglia di dieci milioni di dollari per informazioni che portino al suo arresto, è ora ministro degli Interni. Per quanto i talebani si focalizzino storicamente solo sull’Afghanistan, essi subiscono pressioni da parte di gruppi più radicali come lo Stato islamico del Khorasan, che recluta afghani abbagliati dalla prospettiva di partecipare a un jihad internazionale. I talebani dovranno inoltre fare i conti con le molte migliaia di foreign fighters che hanno combattuto al loro fianco durante l’insurrezione ma che non hanno alcuna funzione utile ora che la guerra è conclusa. Dare rifugio a questi jihadisti stranieri pone un dilemma con conseguenze a livello sia regionale sia internazionale: sostenere i vecchi amici che vogliono combattere nuovi jihad in altri paesi o abbandonarli per favorire migliori relazioni internazionali? I talebani hanno profondi legami con i gruppi jihadisti regionali che da tempo prendono di mira l’Asia centrale e meridionale. L’O‘zbekiston islomiy harakati (Movimento islamico dell’Uzbekistan) cercò inizialmente di rovesciare il governo uzbeko postsovietico e combatté a fianco dei talebani durante l’invasione americana del 2001, schierandosi successivamente con gruppi più radicali come l’Isis con l’obiettivo di diffondere il jihad in tutta l’Asia centrale. Dopo aver lasciato il Pakistan nel 2015, il movimento ha assunto particolare rilievo nelle regioni uzbeke dell’Afghanistan settentrionale. Lo stato afghano riceve la maggior parte dell’elettricità dagli stati centroasiatici, con i quali intrattiene importanti relazioni commerciali, per cui i talebani pagherebbero un prezzo molto alto se l’O‘zbekiston islomiy harakati conducesse raid transfrontalieri dall’Afghanistan settentrionale o vi creasse delle basi come avevano fatto i basmači antisovietici negli anni Venti. Anche il Pakistan, pur essendo il principale sostenitore dei talebani, vede con preoccupazione i gruppi di ribelli, per esempio quello dei talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban Pakistan, Ttp), un gruppo islamista pashtun che ha combattuto contro le forze governative lungo la Provincia della frontiera nordoccidentale e si è poi ritirato nell’Afghanistan orientale, da dove ha compiuto attacchi oltre confine. Il Ttp mantiene stretti legami con i talebani afghani, che difficilmente daranno ascolto alle proteste del Pakistan per la sua presenza in territorio afghano. Tutto questo, insieme al rifiuto dei talebani di riconoscere la Linea Durand come confine giuridico, posizione peraltro sostenuta da tutti i precedenti governi afghani, non farà che aumentare le tensioni tra Afghanistan e Pakistan. La Cina, a sua volta, è preoccupata dalla presenza in Afghanistan di un piccolo numero di uiguri membri del Turkistan islom Partiyisi (Partito islamico del Turkestan, Tip), che mira a creare uno Xinjiang islamico e indipendente. Per migliorare le relazioni con la Cina, il nuovo governo talebano ha allontanato gli esponenti del Tip dalla provincia del Badakhshan, confinante con la Cina e il Tagikistan, ma è improbabile che arrivi a consegnare nelle mani di Pechino dei compagni musulmani. Finché rimasero in Afghanistan, gli Stati Uniti si assunsero la responsabilità di monitorare, e in molti casi attaccare, questi gruppi. Ora, tale responsabilità ricade sui talebani, un cambiamento che ha inasprito la possibilità di un conflitto regionale, anziché ridurla. Gruppi terroristici con mire internazionali come l’Isis e al- Qaeda hanno compiuto attacchi contro gli Stati Uniti, il Regno Unito e l’Unione Europea, e non hanno fatto mistero del loro desiderio di compierne altri. L’amministrazione Biden ha affermato di poter tranquillamente lasciare l’Afghanistan perché la minaccia terroristica da lì proveniente non è maggiore di quella che proviene da altri luoghi, come la Somalia o lo Yemen. Considerando tuttavia che furono gli attentati dell’11 settembre a portare gli Stati Uniti in Afghanistan e ad aprire l’intera era della «guerra globale al terrore», qualsiasi attacco proveniente dall’Afghanistan avrebbe un enorme impatto politico negativo. Gli Stati Uniti possono anche scegliere di non invadere nuovamente l’Afghanistan, ma sono comunque in grado di rovesciare qualsiasi governo dei talebani che non riesca a prevenire attacchi di questo tipo, come fecero dopo l’11 settembre sostenendo le fazioni all’interno dell’Afghanistan che si opponevano al loro governo. In alternativa, Washington potrebbe anche ritagliarsi all’interno dell’Afghanistan uno spazio amico, da cui attaccare direttamente i terroristi senza preoccuparsi di chi governa a Kabul. Il rientro degli Stati Uniti in Iraq e poi nel Nord della Siria, nel momento in cui si profilava la minaccia dell’Isis, dimostra la rapidità con cui il vento della politica americana può cambiare direzione se mutano le condizioni. Questo modello di antiterrorismo è concepito per collaborare con le fazioni locali alleate e non comporta la responsabilità di creare nuovi governi. Sarà pure un’eventualità remota, ma lo era anche che gli Stati Uniti entrassero in Afghanistan nel 2001. © 2010, 2023 Princeton University Press All Rights Reserved © 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino