Giovanni Borgognone
House of Trump
(Egea, 2020)
17 Euro, pagine 272

A pochi mesi dalle elezioni americane di novembre, che potrebbero conferirgli il secondo mandato, il mondo intero ancora si chiede come Donald Trump sia potuto diventare il 45esimo Presidente degli Stati Uniti, la prima potenza al mondo. Multimiliardario in dollari, imprenditore spericolato, costruttore, star televisiva in un programma di successo come The Apprentice, il tycoon newyorkese impersona perfettamente il sogno americano nel 21esimo secolo.
Adottare i paradigmi della politologia non può valere per Donald Trump, la cui vittoria è ancorata nell’America dei Grandi Laghi, dei campi di patate dell’Idaho o a Motor City Detroit. Comunque lontano dalla East e dalla West Coast, considerate più socialmente evolute, più culturalmente all’avanguardia e alla fin fine più ricche. Giovanni Borgognone, professore associato di Storia delle Dottrine politiche all’Università di Torino, prova a raccontare l’ascesa di Donald Trump, raccontandone i riferimenti politici e culturali. Ma guardandolo pure attraverso un’altra dimensione, a partire dal suo approccio “privato” anche nei grandi scenari internazionali. Come dimenticare The Don che vola fino in Corea del Sud per incontrare «il mio amico» Kim Jong-un, durante una delle più difficili crisi internazionali, innescata dal dittatore Nordcoreano. Quello che ne esce è il ritratto di un Presidente, che avrebbe fatto impallidire Frank Underwood, il cinico inquilino della Casa Bianca della serie House of cards. Fabio Poletti

Per gentile concessione dell’autore Giovanni Borgognone e dell’editore Egea pubblichiamo un estratto del libro House of Trump.

Copertina

L’«ordinario» populismo di Trump.

Dopo la fase grassroots, con Donald Trump il populismo si ripresentò in una versione «dall’alto». Il tycoon newyorkese, pur inconsapevolmente, in quanto non dotato di una cultura politica tale da consentirgli una costruzione del linguaggio basata deliberatamente sui precedenti storici, ma abilmente guidato dai suoi strateghi, riprese molti dei classici tòpoi populisti. Indicò il proprio nemico nelle «élite americane», in controllo, a suo giudizio, delle istituzioni politiche, di buona parte dei media e dei grandi interessi economici, ritenendole responsabili della crisi di valori e del declino del paese. Si ispiravano a Wallace, poi, le venature razziste dei suoi discorsi. Come Nixon, Trump era convinto di poter risvegliare la «maggioranza silenziosa» e di difendere gli interessi statunitensi in un mondo ostile. Da Reagan proveniva l’eco del populismo libertario antigovernativo. Al pari di Perot, The Donald si presentava come outsider «antipolitico», dotato delle sue sole risorse, al di fuori delle conventicole di Washington; analogamente all’uso della televisione da parte del miliardario texano per una «comunicazione diretta» con gli elettori, Trump si serviva, inoltre, della nuova tweet-politics. Da Buchanan, infine, egli riprendeva le «guerre culturali» e la difesa della nazione dalle «invasioni» dei migranti.
Per le ragioni che si è cercato fin qui di mostrare, il populismo non costituisce comunque un fattore in grado di spiegare da solo il successo di Trump, avendo ispirato per decenni e in larga misura il discorso politico statunitense. Nonostante, peraltro, i numerosi tentativi compiuti da storici, filosofi della politica e politologi di inquadrare e classificare il populismo sul piano ideologico o come regime politico, esso si è rivelato proteiforme e sfuggevole a ogni tentativo di categorizzazione. Come emerge anche solo dalla storia delle sue molteplici versioni statunitensi, il populismo si riduce a una «costante ma mutevole retorica politica», che può essere trasformata tanto in ideologia radicale, progressista, riformista, quanto conservatrice e reazionaria. Il loro minimo comune denominatore è costituito da una serie di «risorse discorsive», a partire dalla contrapposizione tra popolo ed élite, che può essere adoperata con le finalità e nei modi più diversi. Il linguaggio del populismo – declamato, scritto, trasmesso televisivamente, twittato – è sempre quello di chi pretende di parlare a nome della vasta maggioranza delle persone, per denunciare l’autoreferenzialità di coloro che detengono il potere, accusati di ignorare o avere tradito gli ideali democratici, e per farsi, dunque, portavoce di una «maggioranza silenziosa». Il frequente appello populista alle «identità» può sembrare ingenuo, oltre che pericoloso; da questo punto di vista non sorprende certamente il fatto che l’idioma populista sia risuonato, negli Stati Uniti come altrove, soprattutto nella difesa da parte della destra reazionaria, non senza venature razziali, dei bianchi come onesti lavoratori, timorati di Dio e sinceri patrioti. Tuttavia, per altro verso, il desiderio di trascendere il populismo, di liquidarlo con una condanna moralistica, o anche semplicemente con una realistica difesa dei sistemi partitici, rischia di rivelarsi una prospettiva miope: minimizza o ignora la rilevanza di un linguaggio che persiste da più di due secoli e che ha alla base la questione delle promesse non mantenute, e forse non del tutto mantenibili, della democrazia rappresentativa, oltre a quelle non mantenute, e almeno in parte mantenibili, della protezione pubblica della società.
In conclusione, la retorica populista può servire a legittimare l’autoritarismo di un leader carismatico che pretende di dare voce al popolo, come Trump, ma può anche ispirare istanze autenticamente democratiche e «dal basso», come le alleanze contadine di fine Ottocento o movimenti e partiti politici nati in seguito alla Grande Recessione del 2008, da Occupy Wall Street negli Stati Uniti a Podemos in Spagna. Il populismo, pertanto, è di per sé un fattore insufficiente per mettere a fuoco la specificità storica e politica dell’era Trump.

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