Chadia Arab
Fragole
Le donne invisibili della migrazione stagionale

prefazione di Aboubakar Soumahoro
traduzione di Ondina Chirizzi
2020 Luiss University Press

Ha destato molto scalpore qualche tempo fa a Milano, l’inchiesta per caporalato che ha svelato lo sfruttamento dei migranti nella coltivazione e nella raccolta delle fragole. Quando avvengono queste cose, come sempre, si pensa che sia un caso isolato, che il «produttore» abbia agito sì fuori dalla legge ma in un contesto di mercato «sano», ben diverso dai campi di pomodoro al Sud, dove i migranti vengono pagati pochissimi euro l’ora o a pochi centesimi la cassetta. Non è così. Non c’è differenza tra lo sfruttamento nei campi tra chi raccoglie fragole, pomodori o arance. Il sistema è talmente rodato che ha dimensioni internazionali, come dimostra la ricerca sul campo durata anni della geografa francese di origini marocchine Chadia Arab. Il suo è uno studio rigoroso. Nel libro racconta i meccanismi di sfruttamento circolari, con la chiamata annuale dal Marocco alla Spagna, dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici che si spezzano la schiena nei campi di fragole. Lavoratori senza alcun diritto, piegati alla logica del profitto e della distribuzione, dove l’unica cosa che conta sono il numero di casette raccolte con i frutti maturi, senza segni di ammaccature, pronti a finire sulle nostre tavole. Le condizioni di lavoro sono al limite della schiavitù. I migranti vengono ammassati nelle cascine con i servizi essenziali ridotti al limite, anche in venti in poche stanze. A pagare di più sono le donne, scelte per le loro condizioni economiche e sociali precarie, a volte al limite dell’analfabetismo, sfruttate dai caporali o dalle caporali, talvolta di origini marocchine. Allo sfruttamento nei campi si aggiunge spesso quello sessuale, davanti al quale molte donne non sanno dome difendersi. Quello che ne esce è un racconto anche sulla dignità femminile, calpestata in un modo che sembra impossibile nel XXI secolo. Fabio Poletti

Per gentile concessione dell’autrice Chadia Arab e dell’editore Luiss University Press pubblichiamo un estratto del libro Fragole.

Quando siamo arrivate a Tarifa ci hanno portato in pullman fino alla cooperativa dove andavamo a lavorare. Eravamo duemila marocchine nella cooperativa dove lavoravo. La finca (azienda agricola) si chiamava Al Andalous. Siamo arrivate in pullman fino a là.
“Il lavoro era molto difficile. Ho lavorato nelle frutas (frutta). Per i mirtilli e i lamponi non si piega la schiena tanto quanto per le fragole. All’inizio il lavoro è davvero duro, ma poi ci si abitua. Inoltre in un primo momento non avevo capito la consegna di non mischiare i frutti maturi con quelli acerbi. E ci facevano di tutto perché non sapevamo nulla. I primi giorni ho pianto due volte. La spagnola che recuperava le cassette che riempivo mi aveva urlato contro una prima volta perché avevo mischiato i frutti maturi e quelli no, poi un’altra volta quando avevo riportato da sola le cassette mentre andavano riunite su un carrello.”
Come tutte le donne delle fragole, Halima ha conosciuto la paura in questo mondo nuovo e lontano dalla realtà marocchina. Progressivamente ha preso sicurezza, si è adattata, ha imparato il lavoro e la vita in comunità. “La prima volta eravamo in sedici in una casa. C’erano due docce, due bagni e una cucina in comune per tutte. Eravamo otto per camera, e dormivamo su letti a castello. Siamo state subito solidali tra noi, ci capivamo. Abbiamo addirittura pianto alla partenza, quando abbiamo dovuto separarci, perché eravamo diventate quasi una famiglia. Le ragazze con cui dividevo la casa venivano da posti diversi. Ce n’erano tre di Khemisset, una del Sahara, una di Tangeri, anche una di Ouarzazate, una di Agadir e una di Béni Mellal. Ce n’era una sola con cui non andavamo d’accordo. Faceva tutto per conto suo e non rimaneva mai con noi. Nelle case vicine c’erano delle rumene e delle bulgare, mentre nella nostra cooperativa non c’era neanche un uomo.
“Il padrone spagnolo aveva messo delle telecamere all’ingresso della casa e negli alberi, era molto rigido perché a volte c’erano delle risse, certe ragazze uscivano la notte e non gli piaceva. Mentre raccoglievamo i frutti c’era una marocchina che ci sorvegliava per vedere se lavoravamo bene o meno. Doveva anche gestire i dormitori, assicurarsi che tutto andasse bene tra noi e che non uscissimo. All’inizio ci tendeva dei tranelli per capire che tipo di ragazze eravamo. Per esempio, ci chiedeva se volevamo che portasse degli uomini nei dormitori. Secondo quello che ci ha detto, aveva studiato a Tétouan. Parlava bene lo spagnolo e il padrone la utilizzava per sorvegliarci. Avevo paura di lei, perché riferiva al padrone, ma allo stesso tempo era molto gentile e ci indirizzava sulla via giusta. Se uscivamo, veniva a parlare con noi e a dirci che non era bene ciò che facevamo. Ci confidavamo con lei quando avevamo un problema. Per esempio, quando stavamo male, o avevamo un problema con un’altra ragazza, o se non venivamo pagate. Il mediatore ci aveva messo in contatto con lei appena arrivate in cooperativa. Si chiama Farida e ha quarant’anni. Quando finisce la stagione può rientrare in Marocco o rimanere in Spagna, perché ha i documenti, può circolare ed è quello che fa. È una donna molto dura, ed è per questo che riesce a farsi rispettare…
“Per uscire bisogna obbligatoriamente mettersi un gilet giallo. Se si esce senza gilet ci vengono trattenuti tre giorni di paga. Se tra noi ci vediamo senza gilet lo diciamo a Farida e lei viene a strigliarci… Da quando siamo arrivate ci è stato detto che c’erano tre cose da non fare: zbala (rovistare nella spazzatura), hrig (scappare, diventare clandestine) e lfsad (prostituirsi). Evitando queste tre cose non avremmo avuto problemi. Sfoglia il nostro, https://www.fakewatch.is/product-category/tag-heuer/aquaracer/ con una varietà di opzioni per soddisfare ogni gusto e budget, disponibile per l’acquisto online.
“Ho avuto un problema con una donna che parlava solamente in berbero. Avevo fatto venire la ‘caporale Fassia’. Ho avuto paura e pianto molto perché aveva mentito. Diceva che avevo rubato la sua cassetta. La sorella del padrone, Monica Carmel, che si occupava di noi, è venuta a cercarmi per chiedermi cosa avevo. Aveva paura che fossi malata e di dovermi portare all’ospedale. Per fortuna il padrone ha visto che era stata l’altra ragazza a provocarmi e l’hanno fatta venire a scusarsi. Alla fine l’hanno mandata via. Quando abbiamo un problema generalmente ne parliamo con Farida, poi con Monica Carmel. Ma se è troppo grave si fa ricorso ai mediatori. Ci hanno dato il loro numero ma abbiamo paura a chiamarli, abbiamo paura del padrone. Temiamo che ce l’abbia con noi per aver chiamato i mediatori e che poi non ci faccia più tornare.”
Ogni cooperativa è diversa e funziona in modo differente dalle altre. Questa è sorvegliata attraverso telecamere ed è controllata da Farida, che ha un ruolo di intermediario tra le donne e il datore di lavoro. Anche in altre cooperative si chiede alle donne di portare un gilet giallo ma non si tratta della maggioranza dei casi in cui ci siamo imbattuti. Alcuni datori di lavoro confiscano il passaporto alle donne per evitare che scappino in altre cooperative o altrove. Un sovraintendente o “la caporale”, spesso un uomo o una donna marocchini, possono svolgere un ruolo di sorveglianza e controllo. Ogni cooperativa è diversa e il percorso di ogni donna unico.
Per esempio, ho potuto visitare un posto chiamato “la casa del gato”, che raggruppa alloggi prefabbricati in mezzo a una foresta, a svariati chilometri dalla città. Questi alloggi sono sorvegliati da un guardiano ventiquattro ore su ventiquattro. Mi è sembrato che non fossero molto graditi alle donne per il loro essere vetusti, per gli odori di fogna che vi si sentivano, per l’isolamento e la distanza dalla città e dalle cooperative dove lavoravano. Nel 2011 la FUTEH ha cercato di rimediare costruendo nuovi alloggi, in attesa dei quali però le donne restano alloggiate per tutta la durata del contratto in prefabbricati che non corrispondono alle loro attese. Da allora quel centro è rimasto in stato di abbandono.

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