Marzouk Mejri è arrivato a Napoli negli anni Novanta da Tebourba, cittadina a una trentina di chilometri da Tunisi, con un diploma preso al Conservatorio e un visto di dieci giorni, ma non è più andato via. Ora, con il suo trio Fanfara Station, sta preparando un secondo album che avrà come protagonista il griot tunisino Boussadia.
Dire che la sua vita è come un film non è una metafora, visto che il regista Ernesto Pagano l’ha scelto come protagonista del documentario del 2018 Vita di Marzouk.
Quando parliamo con lui ci sembra di attraversare un ponte che collega la storia del sud d’Italia a quella del Nordafrica, dal secolo scorso ai nostri giorni. Anzi, anche più indietro, perché Mejri, oltre a essere un virtuoso polistrumentista (è stato lui a portare in Italia la darbouka, uno strumento a percussione del Maghreb) è uno studioso delle tradizioni popolari e si dedica da sempre alla loro valorizzazione attraverso l’arte.
La banda del presidente
I suoi aneddoti ci portano a spasso nello spazio e nel tempo. «Mio padre è stato un vero promoter artistico a Tebourba e faceva musica anche a casa. Faceva parte della banda della città dove suonava il rullante, era un uomo molto attivo, aveva la macchina e portava in giro tutti. Le prove si tenevano ogni dopolavoro e ogni esibizione era sempre come una festa». La banda era parecchio conosciuta negli anni Cinquanta e Sessanta perché accompagnava negli incontri pubblici il leader del movimento per l’indipendenza della Tunisia, Habib Bourguiba, che poi è diventato il primo presidente del Paese.
Mejri ci spiega che l’orchestra ha riportato in auge il malouf, un genere musicale araboandaluso importato in Nordafrica tra 1400 e 1500. Su una ritmica maghrebina, nel malouf si parla soprattutto d’amore e di nostalgia, usando un linguaggio che fonde arabo classico con contaminazioni turche, spagnole e mediorientali.
Dalla Tunisia alla Napoli multiculturale
«Ero appena arrivato a Napoli nel ’94, quando camminando per strada ho visto un manifesto con la scritta in francese Sans frontières, sans patron che pubblicizzava una manifestazione a favore della regolarizzazione dei migranti. Sotto c’era il nome di un gruppo marocchino che avrebbe suonato. Sono andato a vedere di cosa si trattava ed è stato quello il primo passo verso la musica in Italia. Ho partecipato a quella manifestazione e mi sono fatto conoscere dagli organizzatori. Così mi sono detto: “Questo è il mio mondo, non mi allontano mai più”».
E infatti Mejri è rimasto nella città partenopea. Grazie alla legge Martelli in vigore in quegli anni, ci racconta lui, è riuscito a mettersi in regola e ha sposato la madre dei suoi due bambini. Ha iniziato a collaborare con musicisti del calibro di Daniele Sepe, James Senese, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Beppe Barra e i 99 Posse. «Sono rimasto per la musica. Per mia fortuna, nel periodo in cui sono arrivato, a Napoli c’era un forte spirito di accoglienza e una grande apertura culturale. Ma guardando ora chi viene da fuori come me, vedo che i problemi nascono quando sei lontano dalla cultura. Quando lavori nei campi, nelle campagne o nell’edilizia non c’è la stessa apertura».
I Fanfara Station
Da una manciata di anni il musicista tunisino fa parte dei Fanfara Station, un progetto musicale che si ispira alle migrazioni del Mediterraneo.
Fanfara balcanica, sezione ritmica nordafricana e orchestra ottomana si uniscono all’elettronica, praticamente in un dance party.
Nel gruppo, oltre a Mejri, ci sono il trombettista californiano Charles Ferris e il producer e dj torinese Ghiaccioli e Branzini. «La banda di mio padre ha influito molto sul progetto Fanfara Station. Anche noi facciamo il malouf ma a modo nostro, insieme all’elettronica e ai fiati (con il nay, flauto fatto di canne del fiume), le percussioni, il clarinetto. Ci capita di mischiare melodie tradizionali e testi originali, spesso improvvisiamo».
Nel secondo album, dopo Tebourba che è uscito nel 2018, protagonista sarà una maschera tunisina, Boussadia, una specie di giullare, un griot cantastorie legato alla musica del sud della Tunisia, lo stambeli. «Con lo stambeli ci stiamo allontanando dal mondo mediorientale e stiamo andando verso l’afroblues. Mi sto aprendo anche a cantare in francese e in italiano. Sono soddisfatto di Canzone arrabbiata ed è piaciuta molto anche al pubblico».
Abbiamo chiesto a Marzouk Mejri e ai Fanfara Station che musica amano ascoltare. Tra malouf tradizionale e nuove contaminazioni elettroetniche, ecco la playlist che il trio ha creato per il nostro canale Spotify, Nuove Radici World Radio. Buon ascolto.