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The pen is on the table? Dimenticatevela, direbbe Consuelo Pintus. La giovane professoressa è un’insegnante particolare. Non solo perché la sua area principale di docenza, lingue orientali, è ancora qualcosa che suona esotico, in Italia e a gran parte degli italiani. Ma perché il suo approccio al tema dell’apprendimento di una lingua non ha nulla a che fare con quello cui, fino ad oggi, siamo stati abituati: il suo progetto innovativo si chiama DOMO ed è stato fondato nel Borgo Sostenibile di Figino, il progetto di Housing Sociale alle porte di Milano ovest.

Lei di fatto è in parte manager, in parte professoressa, in parte mediatrice. Cosa ha studiato?

«Mi sono laureata a Milano in Mediazione linguistica e culturale, scegliendo inizialmente di studiare giapponese abbinandolo all’hindi. Nel frattempo, ho lavorato come speaker e assistente sui voli per il Giappone, per consolidare la lingua, e ho iniziato a viaggiare per l’India. Poi ho preso una laurea magistrale in Scienze internazionali a Torino e, subito dopo, ho vinto una borsa di studio per la prestigiosa scuola governativa di hindi, il Central Institute of Hindi di Agra, e infine ho perfezionato la lingua con un corso di sei mesi alla Nehru University di Delhi».

Quando ha iniziato a insegnare?

«Da nove anni lavoro come mediatrice e facilitatrice nelle scuole e dal 2010 sono docente a contratto di hindi, presso l’università Statale di Milano».

Come è finita nel Borgo di Figino?

«La premessa è che l’aspetto del mio lavoro che mi dà più soddisfazione è l’insegnamento ai bambini. Tramite una lingua, trasmettiamo loro una chiave di apertura al mondo intero. Da tempo sognavo di aprire una scuola con un metodo di insegnamento tutto mio e, per una combinazione di eventi, con una mia collega abbiamo individuato questo progetto di housing sociale aperto a iniziative legate al terzo settore, attività che promuovessero la condivisione, valorizzazione del territorio, una nuova idea di vivere e di abitare gli spazi».

Cos’è il Borgo Sostenibile e cosa c’entra con le lingue?

«Figino è un quartiere di Milano che ad oggi presenta una doppia anima, quella rurale, fortemente ancorata al territorio agricolo che è stato il suo passato, e quella moderna, innovativa, che sta tentando di ampliare la vita sociale dei del borgo, grazie a questo progetto. È una realtà in evoluzione, multietnica, e come tale perfetta per un progetto che guardi non solo alle lingue, ma alle culture, e senza limitarsi a lingue (e di conseguenza culture) che, erroneamente crediamo siano più importanti. Intorno a questa idea è nata DOMO, che abbiamo inaugurato nell’aprile del 2017».

Perché si chiama DOMO e in che senso ci sono le lingue più importanti di altre?

«DOMO la penso come una casa dove ognuno possa parlare la propria lingua, e portare la propria cultura ma anche scambiare lingue altre e impararne di nuove, insieme alle relative culture. Il mio obiettivo è questo: dimostrare nei fatti che tutte le lingue e le culture sono importanti alle stesso modo, soprattutto se pensiamo al futuro di una generazione che questo concetto lo dovrà avere molto chiaro in testa!»

Ovvero, l’inglese e lo spagnolo sono lingue bellissime, ma andiamo dietro lo stereotipo, osiamo, sperimentiamo. Apriamo la mente.

Ad esempio?

«Da noi si possono studiare inglese, francese, tedesco, spagnolo, cinese, hindi, giapponese, arabo, e italiano l2, ovvero come seconda lingua. E poi, a richiesta, un po’ di tutto. C’è chi vuole imparare l’aramaico, chi il farsi, chi lo swahili…»

Immagino però che la sua rivoluzione non c’entri con il solo aramaico…

«C’entra con un certo tipo di approccio. Organizziamo corsi di lingue per bambini dai 18 mesi in poi, e per ragazzi e adulti, sia durante la settimana che nel weekend. Ma il cuore delle nostre attività sono i corsi di lingua in azione, come una serata di degustazione di vini in francese, una cena indiana in lingua hindi, la lezione per cucinare sushi in giapponese. L’anno prossimo inaugureremo i corsi di cinema in spagnolo, di cucina ayurvedica in hindi, riproporremo le lezioni di Baking in english. E poi c’è un progetto importante, legato alle seconde generazioni».

E quali lingue vogliono imparare, i nuovi italiani?

Per loro la chiave linguistica è la chiave di comprensione della loro identità. Ne sono sempre stata convinta, che una lingua sia la strada migliore per entrare dentro una cultura e dentro un Paese. Ci sono mamme straniere che mi chiedono corsi da fare insieme ai figli: la mamma magari sa parlare la lingua d’origine, ma non la sa scrivere, mentre per i loro bambini è importante conoscere la lingua standard, epurata dai dialetti o da errori grammaticali, così che possano usarla sia in famiglia, sia lavorativamente.

«Ci sono genitori che mi hanno chiesto di insegnare l’arabo ai loro bambini, perché avevano bisogno di consolidare e salvaguardare la lingua, e in questo modo una identità: i bambini si annoiano, magari a casa non hanno voglia di parlare un’altra lingua. Noi lo facciamo in modo ludico, coinvolgendoli ma senza stancarli. Se questo avviene quando sono bambini, li aiuterà nella fase di riconoscimento della loro identità personale, darà loro gli strumenti per gestire la loro “dualità” interiore. E magari li aiuterà a comunicare con i propri cari, a casa, in modo corretto».

Italiani di seconda generazione che a casa parlano solo italiano?

«Magari sono nati in Italia da due genitori stranieri, o un solo genitore straniero. E quando vanno nel Paese d’origine non possono comunicare con gli zii, con i nonni. Vi immaginate il dolore? La barriera personale? Ci si sente straniero in quella che, in parte, è casa propria. Mi viene in mente una ragazza cinese, di seconda generazione, che ha incominciato a studiare cinese a 14 anni: in casa i suoi genitori lo parlano, ma non l’hanno mai forzata e tra la scuola e gli amici, lei parlava malissimo cinese, non era in grado di comprendere perfettamente quel che le dicevano i suoi genitori. Ha fatto diversi tentativi, ma non sono andati a buon fine. Per lei, che ha un accento milanesissimo e una r moscia molto pronunciata, abbiamo fatto un percorso mirato, che le facesse anche riscoprire la cultura e la letteratura del suo Paese d’origine. È un lavoro che l’ha cambiata molto: ora, appena finito il liceo, ha deciso di iscriversi all’università, a Mediazione linguistica, per essere anche lei d’aiuto ai nuovi italiani».

Avete relazioni con le associazioni di comunità straniere?

«Per il momento solo con alcune di loro, ma ci piacerebbe essere sempre più connessi con le comunità straniere. Esistono, almeno a Milano, scuole di lingue legate alle singole comunità, ma spesso l’apprendimento che passa è regionale, noi proponiamo invece delle lingue standard, un metodo di insegnamento laico, se vogliamo, che lavori sulla lingua in tutti i suoi aspetti, non solo quelli della grammatica. Nello specifico ad esempio stiamo pensando ad un corso per la comunità rumena, mentre quella filippina ci chiede corsi che, oltre all’inglese e al rafforzamento dell’italiano, comprendano anche il tagalog».

Se le dico multilinguismo, cosa le viene in mente?

Un uomo mi ha chiesto di studiare farsi, perché vorrebbe comunicare meglio con la famiglia della moglie, mentre delle donne straniere sposate a italiani mi chiedono corsi mirati per imparare meglio e in fretta l’italiano, per esigenze lavorative e quotidiane. Ad una mamma che per lavoro deve studiare francese abbiamo proposto uno dei nostri corsi mamma-bambino, da 18-36 mesi: è straordinario quanto in quella età assimilino concetti che terranno stretti tutta la vita. E vedendo i genitori sforzarsi, o parlare loro in una lingua che non hanno mai sentito, memorizzano suoni anche molto complessi, che magari l’adulto fa più fatica a fare propri.

Bambini che, un domani, saranno figli del mondo?

«Esatto. Abbiamo appena concluso i nostri summer camp, che abbiamo scelto di fare in inglese ma con attività come lo yoga per bambini in hindi o passi di danze orientali. In questo modo realtà lontane prendono, nella mente dei più piccoli, un nuovo significato: capiscono quanta varietà esista al mondo, e che non ne devono avere paura. Questa è una generazione che viaggerà, lavorerà con le persone più disparate, sarà molto più esposta al resto del mondo: voglio dare loro una serie di strumenti ai quali attingere sia che restino in Italia sia che vadano all’estero. Nel giro di un’estate, diventano bambini meno paurosi, meno spaventati dalle situazioni nuove. Non sono più culturalmente a digiuno e sono molto tranquilli nell’approcciarsi ad attività che non fanno parte del loro bagaglio culturale. L’esempio più bello? A fine estate se gli parli di una tradizione o di un piatto che non hanno mai sentito nominale, non ne parlano usando “noi”, “voi” e “loro”, ma chiedono semplicemente come si fa a farlo».

photo credit: Bic Indolor