Girare il più in fretta possibile o aspettare che finisse la pandemia? Il regista e sceneggiatore romeno Radu Jude deve essere stato contento di aver scelto la prima, tra le due strade. Quella che ha permesso al suo Babardeală cu bucluc sau porno balamuc (Bad Luck Banging o Loony Porn) di vincere la prima edizione “pandemica” della Berlinale: una kermesse divisa in due, con una prima parte per addetti ai lavori che si è tenuta agli inizi di marzo e una seconda per il pubblico rimandata a giugno, quando a Berlino si immagina di poter proiettare i film in concorso in più sale cinematografiche dalla capienza minima o quantomeno all’aperto.
Dopo settimane a discutere della maggiore o minore apertura al tema della diversity da parte dei Golden Globe, da Berlino arriva, puntuale come ogni anno, la lezione che dimostra come far funzionare un festival che, da tempi non sospetti (è nato nel 1951), si dedica alla promozione della pluralità di voci, spaziando dalle seconde generazioni alla sostenibilità ambientale, dai diritti Lgbt alle questioni di genere.
Quest’anno a mettere d’accordo la giuria internazionale è stato un film che oltre ai benpensanti sfiderà anche i distributori – in quella che dopo l’ennesimo dpcm oggi appare come la remota possibilità di vederlo in un cinema, fosse anche d’essai – visto che si apre con la lunga sequenza di un video porno amatoriale girato da una coppia, finito online. Nonostante indossino la mascherina anche in quell’occasione, tra i due verrà riconosciuta la professoressa di una scuola della buona borghesia di Bucarest. E la cosa susciterà uno scandalo tra i genitori degli alunni, imprigionati dall’educazione bacchettona ricevuta durante la dittatura di Nicolae Ceaușescu e atterriti dal fatto che la donna che insegna ai loro figli abbia una vita sessuale.
Un film che «sfida anche questo momento presente del cinema, scuotendo, con il movimento della macchina da presa, le nostre convenzioni sociali e cinematografiche. È un film complesso, oltre che selvaggio, intelligente e infantile, geometrico e vibrante,impreciso nel migliore dei modi. Attacca lo spettatore, suscita disaccordo, ma non lascia nessuno a una distanza di sicurezza», come ha detto il regista israeliano Nadav Lapid, vincitore due anni fa con il film Synonymes, a cui è stato affidato il compito di enunciare le motivazioni del premio in mancanza di un presidente di giuria.
Per la 71esima edizione del Festival, è stata infatti nominata una giuria di sei registi, tutti ex vincitori dell’Orso d’oro. Oltre a Lapid, a giudicare i film in concorso c’erano l’iraniano Mohammad Rasoulof – che l’anno scorso aveva vinto con There is no evil, ma non aveva potuto ritirare il premio personalmente perché non gli era stato possibile lasciare il Paese a causa degli arresti domiciliari –, la romena Adina Pintilie, l’ungherese Ildikó Enyedi, l’italiano Gianfranco Rosi e la bosniaca Jasmila Žbanić. Una giuria che ci ricorda che, se si vuole promuovere la diversity, questa dovrebbe riguardare tutti i gradi di un festival. Capito, amici americani?