Oramai è impossibile definire Amir Issaa solamente un rapper, come alla fine degli anni ’90 quando ha iniziato la sua carriera sulla scena hip hop romana con Piotta, i Flaminio Maphia e i Colle der Fomento.

Da circa cinque anni sta portando in giro per gli Stati Uniti la testimonianza di un vero italiano della “prima” seconda generazione. Viene invitato a parlare agli studenti universitari dei cambiamenti del tessuto sociale dell’Italia da qualche decennio a questa parte, di fronte allo sguardo miope dell’opinione pubblica che, nonostante l’evidenza, resta ancorato a paure e stereotipi.

«Mia madre era italiana e mio padre egiziano ma io mi sono sempre considerato italiano». Amir è nato a Roma alla fine degli anni Settanta e con l’Egitto ha un legame che definisce virtuale.

L’ho studiato a scuola esattamente come i miei compagni di classe. Anche a me capita di usare alcune espressioni come nuovi italiani, perché è comodo, ma dietro a questo discorso dei ragazzi di seconda generazione ci sono storie uniche e molto diverse tra loro.

La sua storia Amir l’ha raccontata in Vivo per questo, un libro fluido e illuminante come un flow di rap, pubblicato nel 2017 da Chiarelettere, in cui le vicende personali si intrecciano a quelle della Roma di borgata, tra disagio sociale, razzismo, hip hop e writer. E in cui, soprattutto, irrompe la criminalità, che è l’aspetto su cui Amir Issaa si sofferma maggiormente quando ricorda l’adolescenza e il rapporto con il padre.

Mio padre è arrivato in Italia per studiare e ha incontrato mia madre, che veniva dalla Ciociaria. Mio nonno era stato in guerra con Mussolini ed è così che ho avuto da subito a che fare con situazioni conflittuali, già all’interno del nucleo famigliare, perché mia mamma ha portato avanti con coraggio la sua relazione. Successivamente mio padre si è messo nei guai per questioni di delinquenza e tossicodipendenza ed è finito in carcere. Probabilmente se fosse stato italiano avrei comunque avuto parecchi problemi.

Amir, che ha all’attivo una decina di album e vari riconoscimenti tra cui una nomination ai David di Donatello per la colonna sonora del film Scialla, fin dagli esordi ha fatto dei temi sociali il suo cavallo di battaglia, proprio come vuole la tradizione del rap statunitense. «Circa quindici anni fa ho scritto una canzone che si chiama Non sono un immigrato, uno slogan che avevo usato contro i media quando è uscito il mio primo album. Mi chiamavano a intervenire ovunque si parlasse di immigrazione e clandestini, ma non emergeva mai il fatto che chi nasce in Italia vive un’altra vita rispetto a quella dei genitori».

A questo proposito, Amir sottolinea l’eclettica composizione religiosa della sua famiglia: madre cattolica, padre musulmano e una compagna con origini ebraiche. Lui, pur non essendo battezzato, ha frequentato le scuole cattoliche. «Nel mio quartiere, Tor Pignattara, non c’erano altri figli di immigrati, solo una famiglia di capoverdiani con cui ci incontravamo e ci riconoscevamo. Nella mia scuola, poi, c’erano solo due ragazzi di origine africana. Oggi, in una classe, la metà dei ragazzi è di origine straniera. L’Italia è cambiata molto ma l’atteggiamento purtroppo è sempre lo stesso. Le canzoni che ho scritto dieci, quindici anni anni fa sono tremendamente attuali, pezzi come La mia pelle sembrano raccontare cose che continuano ad accadere sotto gli occhi di tutti anche in questi giorni, come l’episodio di razzismo verso Balotelli».

Amir Issaa racconta che gli studenti universitari negli Stati Uniti leggono estratti del suo libro per capire meglio l’Italia degli ultimi anni, perché spesso all’estero c’è una lente di ingrandimento su tematiche come l’emigrazione o il razzismo e i metodi di apprendimento sono più pratici e creativi, attenti alle testimonianze reali. «Negli Stati Uniti il rap è un fatto sociale, radicato nella cultura, e anche in altri Paesi europei esiste una rete di educatori che si occupano di riqualificazione dei quartieri degradati attraverso musica e ballo. In Belgio, per esempio, le ragazze musulmane fanno dei workshop di break dance. La cultura hip hop ha un potere enorme sui giovani. Purtroppo in Italia non ci sono le risorse economiche per organizzare questi laboratori e l’hip hop non è considerato educativo».

Da quando ha iniziato a esplorare le mille declinazioni comunicative della scrittura, Amir Issa si è buttato nel mondo dei progetti didattici collaborando con scuole private, associazioni come Sant’Egidio o il Centro Astalli o nelle carceri come Regina Coeli, dove è stato recluso suo padre e dove ha sentito di «avere chiuso un cerchio».

L’ultimo progetto che sto portando proprio nelle carceri si chiama Guerra di Parole, realizzato con la comunicatrice e docente Falvia Trupia. In pratica, organizziamo delle sfide di retorica sul modello delle battaglie di free style tra rapper, facendo confrontare due gruppi di concorrenti molto diversi tra loro su un tema scelto dalla giuria.

«Quest’anno, per esempio, si sono affrontati gli studenti dell’Università Statale di Milano e i detenuti del carcere di San Vittore. In una delle ultime sfide contro la squadra di studenti di un liceo di Roma c’erano degli avvocati penalisti e hanno vinto gli studenti!».

Insomma, mai dare nulla per scontato e soprattutto mai sottovalutare il potere della cultura e del coraggio. Almeno in termini di libertà, se questo è poco.

 

 

Da quando leggo questi libri ho iniziato a pensare / Vado in giro con la faccia di chi non ha più paura / Sono un uomo, tutto il mondo chiuso in queste quattro mura / Sogno l’Africa, l’America, l’Australia / Sogno di essere un gabbiano in volo, parte di quest’aria (La mia pelle).

Foto: Jessica Lourenzo