Una pallottola che si conficca sul sellino della bicicletta può decidere della tua vita. Quella pallottola vale molto più di tanti discorsi, per convincerti che è arrivato il momento di partire. Pjerin Brahimaj è albanese, di un paese ai confini con il Montenegro. I suoi genitori decidono, per dare un futuro ai figli e soprattutto per farli studiare, di spostarsi dal loro piccolo villaggio in un paese a trenta chilometri.

Allora, in Albania, per spostarsi da un luogo all’altro, bisognava avere un nullaosta delle autorità. Loro, senza queste autorizzazioni, si spostarono lo stesso: hanno affrontato, come mi racconta Pjerin, la clandestinità a trenta chilometri. «Come dico sempre a mio padre, la storia si è ripetuta. Anch’io sono stato un clandestino, ma al contrario di mio padre non per scelta».

Pjerin nasce nel 1970, nel 1988 parte per Tirana e frequenta la facoltà di Economia. Nel frattempo, nel 1989 cade il muro di Berlino e iniziano a sgretolarsi i regimi comunisti. Nel 1990, i giovani studenti albanesi iniziano a protestare contro il regime. «Anch’io ho dato il mio modesto contributo per riuscire a cambiare il sistema politico dell’Albania. Siamo stati fra i primi studenti a scendere in piazza. Si chiedeva il pluralismo di pensiero, la libertà di di espressione. Sono orgoglioso, anche, di aver contribuito a creare il primo Partito Democratico d’Albania, quello di Sali Berisha».

Tutto questo fermento provoca un massiccio esodo dall’Albania. Le ambasciate straniere, soprattutto quella italiana, vengono prese d’assalto da chi vuole andare via. Circa diciottomila persone si rifugeranno nei giardini della nostra ambasciata, fino a quando le trattative non daranno il via libera di partire. Pjerin decide di rimanere per finire gli studi e laurearsi, lo doveva a se stesso e ai suoi genitori che avevano fatto tanto per farlo studiare: «Era dura dover dire alla propria famiglia “mando all’aria tutti i vostri sacrifici”. Poi, credevo nel cambiamento dell’Albania».

Nel 1992, oltre alle elezioni vinte da Sali Berisha, arriva la laurea e anche il lavoro. Pjerin inizia a lavorare in un’azienda statale a Tirana: «Mi occupo di marketing. Ero fiero del mio impiego. Faccio molti viaggi per lavoro e, nonostante le difficoltà che posso incontrare, mi sento realizzato. Nel 1996 mi sposo. Ma non avevo fatto i conti con l’instabilità politica. Nel 1992, dopo le elezioni amministrative, era iniziata una sorta di ripresa economica che portò a un cambiamento radicale. La situazione precipita e dal sogno di un futuro migliore si cade in un incubo. Tra il 1995 e il 1996 erano nate tante società di credito “piramidali”: fu la rovina. Molti investirono, perché queste società promettevano fino al 300% di interessi. Dopo le elezioni politiche del 1996 tutto il sistema è crollato. Chi aveva raccolto i soldi è scappato, la maggior parte del popolo si è ritrovata senza nulla. A questo si aggiunse la guerra nel Kosovo».

Nella situazione di sbando, Pjerin perde il suo lavoro. In quel momento, causa l’incuria delle autorità, i depositi di armi sono lasciati incustoditi e vengono assaltati da una parte della popolazione che si arma e inizia una fase di anarchia. Mentre mi racconta, sento ancora tutto il dolore che ti può dare un sogno infranto, il disorientamento di dover far fronte una situazione incontrollata e incontrollabile, ma la voglia di rimanere lì, nonostante si possa girare per strada solo dalle nove alle tredici, perché poi scatta una specie di coprifuoco.

Così, inizia a fare mille lavori, fin quando non apre un piccolo negozietto. Per rifornirsi di merce, con la bicicletta va fino al grossista. Un giorno, spingendo la bicicletta a mano carica di merce e chiacchierando con un conoscente, sente uno sparo e la pallottola si conficca nella sella. «Se fossi stato sulla sella, sarei morto. Allora, morire per morire, meglio tentare la fortuna, andare via. Ho preso la decisione e ho iniziato ad attrezzarmi per andare via con mia moglie. Le avevo proposto di partire da solo, ma lei non ha voluto. Ha avuto ragione e coraggio».

Così, nel febbraio del 1998, salgono su un gommone a Valona per l’Italia, quarantacinque minuti di traversata, e arrivano sulle coste leccesi, poi da lì in treno fino a Milano, infine a Varese dove avevano amici. Arrivati in Italia, cosa succede? La voce di Pjerin si incrina: «Arrivati in Italia? Diventiamo clandestini. Non so se supererò mai quella fase della mia vita. Allora si usavano quei telefonini grandi come mattoni, per me chiunque ne avesse uno era un poliziotto. Io ho sofferto molto, perché, da clandestino, non sei nessuno. Non puoi dire chi sei, non puoi raccontare la tua storia. In quella condizione, puoi solo sopravvivere: tutto ciò che hai fatto nella tua vita precedente non conta. Mi ripeto, puoi solo sopravvivere e farlo nella maniera più onesta possibile. L’unica legge che ho infranto in vita mia è stato l’arrivo in questo Paese da clandestino». Pjerin, mi racconta: «Arrivato in Italia, ho lavoricchiato, soprattutto in campo edile, ma non ero bravo. Non era il mio lavoro, inoltre parlavo male italiano. Lo capivo, perché come tutti gli albanesi guardavo la tivù italiana: il mio poco italiano l’avevo imparato guardando La Piovra. Parlavo un buon inglese, ma qui non mi serviva. Così, un giorno, vidi un cantiere vicino casa e chiesi lavoro. “Cosa sai fare?”, a quella domanda risposi “Nulla. Ho solo bisogno di lavorare”. Mi mandarono a parlare con il proprietario dell’impresa e fui preso, anche se non avevo documenti. Era giovedì 4 settembre 1998. Ho ancora la pelle d’oca quando lo ricordo. Quando uscì la legge, mi aiutarono a fare i documenti».

A dicembre di quell’anno entrò in vigore la legge Turco-Napolitano, che diede la possibilità a chi era entrato illegalmente in Italia di regolarizzare la propria situazione. Prevedeva che tu fossi in Italia prima del 27 marzo del 1998, una dichiarazione di ospitalità e un contratto di lavoro. «Finalmente, fatti tutti i documenti per me e mia moglie, mi diedero il numerino della pratica. Ero di nuovo una persona, ero finalmente sereno. Una sera, accompagnai in questura dei parenti che dovevano mettersi in fila per le loro pratiche. Tornando a casa, mi fermarono i carabinieri, ma io avevo il mio numero in tasca e, felicemente, glielo mostrai. Ero finalmente libero di girare. Non dovevo più avere paura di salire su di un treno». Tutti lo hanno aiutato, nel presentare i documenti, dal parroco, ai proprietari della casa, al titolare dell’impresa dove lavorava.

Pjerin è residente a Varese, dal 23 agosto 1999 ed è cittadino italiano. «Sono fiero e felice di avere la cittadinanza italiana, perché se vivi in un Paese e contribuisci lavorando è tuo dovere e diritto esserne cittadino. La mia cittadinanza non è solo amministrativa, è vera. Dopo anni che sono qui, io sono italiano, penso in italiano, anche se ho ancora il mio accento albanese». Adesso Pjerin lavora alla Fillea CGIL di Rho. Prima ha sempre lavorato per la stessa impresa edile, che nel frattempo si è ingrandita. Seguiva il magazzino, dove le sue doti organizzative finalmente potevano essere espresse. Presa la patente, ha iniziato a fare anche l’autista.

In una grande impresa, il sindacato è presente, ma lui ne stava lontano, lo guardava con diffidenza, non conosceva la storia del movimento sindacale italiano e il sindacato albanese che lui conosceva non era altro che una cinghia di trasmissione del Partito comunista. Per cui lui, dopo aver preparato il salone per le assemblee, tornava al suo lavoro. Non riusciva a superare i suoi pregiudizi: «Mi chiedevano di partecipare, di ascoltare, poi ho iniziato a superare la mia diffidenza, ma soprattutto ho preso coscienza che il mio lavoro non era riconosciuto. All’inizio, per riconoscenza, lasci correre, ma dopo anni che lavori duramente e sei sempre a disposizione vorresti non essere più un primo livello. Dopo un po’ di trattative riuscii ad avere il secondo livello. Nel 2003, causa divergenze, spiegai che se avessi trovato di meglio, sarei andato via. Tutto questo da autodidatta, studiandomi il contratto». Finalmente trova un altro lavoro, stessa mansione, magazziniere e autista ma con un contratto da terzo livello. «Dopo aver avuto il nuovo lavoro, iniziai a interessarmi al sindacato e scelsi la CGIL, perché mi convinceva di più per la mia formazione. Così ho iniziato a occuparmi dei lavoratori stranieri, soprattutto nel campo degli edili la loro presenza è numerosa. Organizzavamo delle assemblee apposta per loro, in modo da poter dare tutte le informazioni, anche per quanto riguarda le leggi sull’immigrazione. Così, quando mi proposero di fare il delegato, ho accettato». Adesso è funzionario del sindacato ma, come sempre, Pjerin ci ha voluto pensare prima di accettare, perché il lavoro di sindacalista, è anche una missione: «Lavori con delle persone, che non devi solo tutelare: devi comprenderle. Devi sapere ascoltare, molti arrivano pensando che tu possa risolvere ogni loro problema, dalla bolletta della luce a quelli con il collega di lavoro. Mi sono chiesto molte volte se fossi in grado di reggere la carica di ascoltare tutti i loro problemi, sapendo che mi immedesimavo ogni volta. Lo sono, tanto è vero che all’inizio ero un punto di riferimento soprattutto per gli stranieri, ma adesso posso dire di essere un riferimento per italiani e stranieri. Sono un sindacalista di origine albanese, che rappresenta tutti i lavoratori».

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *