L’arte non rivoluziona la società. Con le canzoni, è possibile aiutare le persone a maturare consapevolezza e a fare piccoli passi verso il cambiamento, ma la rivoluzione sociale avviene attraverso iniziative della politica.
Gato Barbieri, musicista, Argentina

 

Edoardo Albinati, romano, scrittore, traduttore, sceneggiatore, nel 2016 ha vinto il premio Strega con La scuola cattolica. In passato ha collaborato con UNHCR, l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu. Da anni insegna in carcere ai detenuti, molti stranieri. Cosa le ha insegnato questa esperienza?

Insegno nel carcere di Rebibbia dal 1994, quindi ho avuto parecchi stranieri di ogni nazionalità come miei studenti. Un’osservazione preliminare curiosa e forse necessaria, sta nel fatto che, malgrado la loro conoscenza dell’italiano fosse spesso scarsa, molti di loro avessero una preparazione scolastica abbastanza solida, ricevuta nei Paesi d’origine, parlassero varie lingue, e dunque mostrassero maggiore dimestichezza e facilità di apprendimento rispetto a parecchi detenuti italiani, il che si deve anche all’età mediamente più giovane. Una classe in carcere rappresenta il microcosmo umano più vario, le esperienze, le età, i luoghi di provenienza sono i più disparati. Questo, di sicuro, può rappresentare un motivo di sconforto per il povero insegnante che si trova a dover tenere insieme un gruppo tanto eterogeneo e insegnare in modo decente e equo la sua materia a tutti, indistintamente, ma è anche uno stimolo, un esperimento di ciò che poi, di fatto, accade anche nella scuola di fuori. Se certi argomenti di una materia riesci a insegnarli lì, con un metodo efficace, allora significa che quel metodo funzionerà ovunque, per tutti, anche per gli studenti liberi. Tanto per dire, se Dante riesci a leggerlo a slavi e africani e italiani in prigione, e la sua bellezza passa, riesce a passare, allora vuol dire che lo si può davvero leggere ovunque e a tutti!
La letteratura si è sempre occupata di migrazioni e migranti. Magari in Italia meno. Gli intellettuali, gli scrittori, che ruolo possono avere?
Migrazione significa prima di tutto viaggio. Si abbandona un luogo, spesso per disperazione ma anche per avventura, sperando di trovarne uno migliore dove vivere. È un istinto insopprimibile, e anche un diritto naturale che si scontrerà per forza con mille ostacoli, naturali e umani. Nel reportage Otto giorni in Niger scritto insieme a Francesca d’Aloja, un rifugiato maliano da noi intervistato lo ha espresso con grande chiarezza e semplicità: «Il luogo dove rischi di perdere la vita, purtroppo devi lasciarlo». Lo fai a malincuore, ma devi farlo, al più presto, se vuoi sopravvivere. Gli scrittori non posso far altro, e a non hanno altro dovere secondo me, che conoscere e raccontare questo, questa avventura umana, in modo spassionato, senza pregiudizi, senza partito preso, senza essere schierati preventivamente a favore o contro qualcosa o qualcuno. Altrimenti il loro racconto non ha più alcun valore e si presterebbe solo a un dibattito tv dove si sa già in anticipo quello che diranno tutti. Più il loro sguardo è libero è più il resoconto delle loro parole sarà attendibile.
Ci sono 1 milione e 300 mila nuovi italiani. 240 mila solo l’anno scorso. Quasi nessuno lo sa: tutti parlano solo di sbarchi. Prima o poi ci si dovrà fare i conti anche se continuiamo a considerarli come fantasmi. In Italia il dibattito è ancora fermo sulle emergenze. I migranti sono o un problema o tutte vittime?
Gli stranieri sono oramai una quota importante tra chi abita il nostro Paese. Sempre minore comunque rispetto ad altri Paesi europei, e malgrado l’Italia sia il Paese più avanzato, una specie di cuneo, diciamo così, nel mondo mediterraneo, un crocevia geografico, e la sua intera storia sta a dimostrarlo, dal tempo dei Fenici, voglio dire, mica da vent’anni a questa parte! L’idea stessa di confine nazionale, retaggio delle guerre mondiali e di sanguinose spartizioni, è rimessa in discussione dalla Storia, dalle nuove aggregazioni politiche internazionali. Il risultato di questi movimenti sarà chiaro alle generazioni seguenti, non a noi che le viviamo. Nel frattempo, basta una morale provvisoria, è sufficiente attenersi a principi minimi di comportamento tra i quali voglio citare uno a cui sono particolarmente affezionato, e cioè quello della “riduzione del danno”. Quasi mai possiamo risolvere drasticamente un problema: possiamo però fare di tutto per evitare guai e sofferenze, possiamo adoperarci per ricomporre le fratture, alleviare il disagio, ridurre il conflitto quando si crea. Questo sì, si può fare. Anche quando l’aria che tira sembra brutta, si può e si deve continuare a fare. Ed è bello farlo. E dovrebbe essere un vanto del nostro Paese, che i suoi abitanti, da millenni, abbiano origini tanto diverse! Se facciamo l’elenco dei popoli che lo hanno attraversato non ci basta una pagina. Lo vuole persino il mito, che i futuri fondatori di Roma fossero, a tutti gli effetti, dei profughi, dei migranti… Dunque gli italiani sono sempre e da sempre “nuovi”, sono nuovi per definizione: è il Paese che abitano a essere antico, piuttosto.
Lei recentemente ha avuto il coraggio di dire una cosa che pensano molti, che se sulla nave Aquarius fosse morto anche solo un bambino il governo avrebbe avuto enormi difficoltà. Ha ammesso subito di essersi vergognato di quel pensiero. Ma cosa c’era dietro?
In un incontro pubblico, mentre si svolgeva il dramma della nave Aquarius, io ho fatto una confessione estrema: ho detto di aver desiderato, per un momento, che sulla quella nave morisse un bambino, uno dei naufraghi a cui l’attuale Ministro degli Interni negava lo sbarco in Italia. L’ho pensato come un’ipotesi cinica che avrebbe però controbilanciato, smascherato e punito il cinismo dei nostri governanti, e messo fine a quell’indecoroso braccio di ferro: non tra l’Italia e l’Europa, come sostiene la propaganda governativa, in realtà un braccio di ferro tra uno Stato sovrano e 600 naufraghi, insomma tra un forte e un debole. Un’idea brutale, la mia, durata cinque secondi contro una pratica brutale che dura ormai da parecchie settimane e chissà ancora per quanto durerà. Ho anche aggiunto che di quel pensiero mi sono immediatamente vergognato, e non solo perché era ignobile, ma anche e soprattutto perché sarebbe stato del tutto inefficace. Infatti, a questi qui, della sofferenza e della morte dei bambini immigrati non importa un fico secco: tant’è che quando ne affoga uno, scrivono “buon appetito ai pesci” o “vaffanculo, era meglio che te ne restavi a casa”. Ora credo che uno scrittore debba scavare nello sporco, digging in the dirt (come diceva una vecchia canzone di Peter Gabriel), e rivelare cosa ci sia sotto, lo sporco degli altri ma prima di tutto il proprio, il proprio rancore, la propria parte oscura, il proprio demone, ecco, sì, anche la verità più scomoda e indicibile deve essere conosciuta, deve venire a galla costi quello che costi. In me è venuta fuori con quel pensiero infame, che però rivendico come esemplare, perché spiega bene a che punto di non ritorno siamo arrivati.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *