Sono una voce che vuole narrare quella parte dell’Italia che agisce con umanità. Il mio volto riflette quello di tante donne e uomini che non possono voltare la faccia dall’altra parte.

Eravamo nel 2015: i rifugiati arrivavano in massa dopo uno, due o più anni percorsi a piedi dalle lontane terre dell’Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria. Avevano i piedi piagati, le scarpe a brandelli, sì e no uno zaino in spalle.

Nel 2018 è iniziata la seconda rotta balcanica: i confini chiusi tra la Serbia e la Croazia hanno spinto migliaia di persone a trovare altri percorsi per giungere in Bosnia e da lì entrare in Europa.

Personalmente ho imparato molto da chi sta male ma, soprattutto, ho imparato a stare al cospetto del dolore. La guerra che i rifugiati si portano addosso nei loro corpi ha attraversato anche la mia pelle, ha rotto i confini di ogni mia geografia fisica e mentale. Oggi, sui confini del mio essere, ho imparato qualcosa sui loro confini. Lungo i bordi di filo spinato, sorvegliati da droni e da cacciatori d’uomini, si consumano queste vite.

Hanno i corpi spezzati, hanno braccia, occhi, pensieri. Sono umani. Eppure, sono corpi e anime che vengono rotte, frantumate, umiliate, denudate, svestite, derubate, respinte a piedi per 20, 25 chilometri dai boschi della Croazia verso i confini della terra da dove erano partiti. Il male è più pervasivo del bene, l’odio è più antico dell’amore.

Attraverso la cura dei corpi, nasce una relazione, avviene un incontro che mette al mondo fiducia, speranza, illusione. È qualcosa di rivoluzionario pur non essendo nulla di eccezionale. La pre-occupazione per il rifugiato, la cura nel chiamarlo per nome, il tè portato nelle notti fredde dell’inverno, le coperte, i sacchi a pelo procurati con fatica, sono un gesto politico che ri-dona soggettività.

Pensare l’altro come se fosse me.

Il rifugiato, spesso spersonalizzato e confuso nella massa dei rifugiati, ha bisogno di essere “visto”, ha bisogno di uno sguardo che lo sappia cogliere, individuare, che gli restituisca la sua singolarità.

Il mio sguardo diventa allora quello della “testimone”, cioè di colei che in virtù di coincidenze casuali quali ad esempio lo stare in strada, condividere il freddo o il caldo o interminabili attese al pronto soccorso, è depositario di un tratto di verità.

La cura della vita mi porta ad stare dove bisogna stare affinché non ci siano altri Ahmad o Yassim che muoiono annegati per sfuggire alla polizia croata; affinché nessun altro Kamal debba dissetarsi bevendo dalla lettiera dei maiali selvatici; affinché nessun bambino o minore non accompagnato debba attraversare i terreni minati o essere drogato di Valium per non far sentire il suo pianto; affinché cessino le violenze come quelle subite dai tanti Behnam o Karim; affinché tutti quelli che stanno vivendo esperienze terribili nei nuovi campi di concentramento abbiano la speranza di una vita nuova; affinché la piccola Amina di un anno che ha incise nella sua pelle le tracce del “border” possa dimenticare e un giorno, forse, “perdonare”; affinché tutti quelli che sono nei boschi fra orsi e lupi e droni e cacciatori d’uomini non siano catturati e deportati;  affinché si risveglino le coscienze in un mondo dove ogni giorno si perdono diritti e si ricostruisce la fabbrica della paura.

Immaginate di avere 15 anni, padre e fratelli morti sotto le bombe,una madre che cerca per te la salvezza. Immaginate di fare lo schiavo per anni per sopravvivere. E di percorrere a piedi migliaia di chilometri per cercare un lavoro in Europa. Gli anni che passano, una vita senza infanzia e forse senza futuro. E pensate ai confini sempre più chiusi.

Ahmed, ad esempio, ha lasciato Aleppo quando era poco più di un adolescente, sotto i bombardamenti. A 12 anni fa lo schiavo in Turchia per mantenere la famiglia incastrata in Siria nella guerra di tutti contro tutti, ma è profugo, non ha valore, lui stesso è perseguitato. Deve scappare, i curdi non sono tollerati dal regime di Erdogan. Inizia mesi e mesi di cammino attraverso la Bulgaria, la Serbia, il Montenegro per ritrovarsi bloccato in Bosnia tra la palude di Velika Kladuša e il campo profughi di Bihać .

Tenta di andare in “game”, cioè di provare il “gioco” per cui se arrivi in Europa, sei salvo; se invece perdi, o sei morto in un fiume o hai fallito.

«Sono stato respinto dal “game” otto volte, picchiato, derubato, umiliato», mi ha raccontato. «In Croazia anche le pecore chiamano la polizia. Quando ti vedono, tu non li vedi, ma loro chiamano la polizia che ti aspetta al varco. Quando ti arrampichi per le montagne devi aggrappati con le unghie; per la fatica finisci subito l’acqua e la sete è peggiore della fame. Quando piove, i fiumi sono in piena e rischi di annegare. I tuoi piedi si riempiono di vesciche e camminare fa molto male. But no option… Sono l’unica speranza di vita per mio padre e mia madre…». mi dice. «Ogni volta che sei respinto, la polizia ti consegna ad una squadra speciale che ha il volto mascherato. Ti tirano fuori dal furgone e ti spruzzano il peperoncino negli occhi, poi ti picchiano, ti rompono il cellulare, ti derubano di tutto, ti tolgono le scarpe e devi fare anche 20 o 25 chilometri a piedi per ritornare al confine con la Bosnia». Quando Ahmed arriva a Bihać, al campo profughi Bira, una ex fabbrica piena di amianto con spazi immensi, pur essendo un minorenne non può rientrare.

Il suo “game” è durato troppi giorni e così ha perso anche il diritto all’accoglienza. Ora gli resta solo la strada senza cibo, senza coperte, sotto la pioggia. Nessun dio è passato quella notte o le notti successive ad aiutarlo. Escluso dallo spazio ed escluso dal tempo, è diventato inesistente. Gli è rimasta la capacità di sognare e di amare ancora la vita nonostante tutto.

Foto: Phil Botha/Unsplash