A fine corso – un corso serale di Documentario alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano, frequentato dopo essermi laureato a Brera – era previsto che ognuno di noi proponesse un progetto. Mi sono sempre interessato alle storie altrui perché hanno sempre qualcosa da insegnare, e sono sempre rimasto affascinato dal modo di raccontare di chi le ha vissute. Per questa ragione, più che proporre, sarei stato più propenso a unirmi a un progetto che trattasse la storia di qualcun altro. Perché sì, io avevo una storia che avrei voluto raccontare, ma era fin troppo intima e non ero così convinto di proporla in ambito scolastico. Ma confrontandomi con Alessio Tamborini – successivamente co-regista del film – e il tutor del corso, mi sono fatto convincere nello sviluppare e raccontare la storia di mio padre. Perché fra tutte le persone proprio lui? Anche se in maniera non definita, era un po’ che pensavo a un soggetto su di lui, per il semplice fatto che ho cercato, soprattutto negli ultimi anni, di redimermi dagli errori fatti nel passato, cercando così di riconoscere i suoi sacrifici, tra sogni svaniti, problemi economici e problemi di salute.
Inizialmente ho esitato un po’ a parlargliene, perché all’epoca dell’Accademia avevo già girato un cortometraggio con lui, ma non si era dimostrato entusiasta di comparire in video. Invece per questo progetto ha reagito bene. L’unica sua preoccupazione era “cosa doveva fare”. La mia risposta era stata chiara: ti devi comportare in modo naturale, come se io non ci fossi. Fai il tuo lavoro, io sarò lì a riprendere. A parole sembrava tutto semplice: io e Alessio lo avremmo seguito con la telecamera mentre beveva il primo caffè al tavolo della cucina al mattino presto, aspettava l’autobus, puliva i pavimenti, sistemava le sedie della sala riunioni dell’ufficio in cui lavora… non avevamo considerato quanta fatica, anche fisica, avrebbe richiesto stare sempre un passo davanti a lui, Miguelito ‘Mike’ Laderas. A partire dalla sveglia, che se per mio padre era alle cinque, per me sarebbe stata alle quattro e mezza, perché alla sua entrata in scena doveva essere tutto pronto per riprenderlo. Poi, una volta finite le riprese, dovevo tornare a casa per poi correre in ufficio per incominciare il mio, di lavoro.
Spostare l’attrezzatura, che peraltro era della scuola e per la quale dovevamo fare a turno, era la cosa più faticosa. Parliamo di una Panasonic 250, un treppiede gigantesco, microfoni vari e l’asta boom (la giraffa che regge il microfono), che non potevamo trasportare in auto ma dovevamo caricarci in spalla portandoceli ovunque lui andasse: che fosse la periferia o il centro non faceva alcuna differenza.
Parlando della storia di mio padre era scontata la tappa a Napoli: nel novembre 2016 siamo scesi per quattro giorni nella città dove siamo nati io e mia sorella e dove lui è arrivato lui nel 1985, seguendo mia madre che era arrivata nel 1976. Escludere i diciassette anni in cui aveva vissuto nel napoletano non era pensabile. Lì siamo andati a fare le riprese nell’asilo di Corso Vittorio Emanuele che era stata – letteralmente – la sua casa: i suoi primi cinque anni in Italia li aveva passati – lui, che nelle Filippine era stato prima un rifugiato politico e poi un militare – nascondendosi in quattro mura, perché era arrivato da clandestino da Parigi per ricongiungersi con mia madre, che gli aveva trovato un posto da bidello. Ogni tanto, quando ci abbandoniamo ai ricordi di quel periodo, riesumando aneddoti legati a quel posto, ricorda che i primi tempi piangeva mentre puliva per terra, chiedendosi il perché di tutto ciò.
Nel giro di poco tempo, dal fare le pulizie era passato a cucinare per i bambini dell’asilo. Ogni pomeriggio io e mia sorella passavamo il tempo ad aggirarci per le classi aspettando solo che lui finisse di lavorare, e capitava che lo aiutassimo in modo da finire prima. Nel film, che si chiama A mio padre, credo si legga bene la mancanza della sua presenza in quegli anni.
Anche quando ci trasferimmo a Monterusciello, nel momento in cui accettò la proposta del proprietario del condominio in cui si trovava l’asilo di lasciare la cucina per dedicarsi totalmente alla sua campagna, la presenza di mio padre in casa era sempre limitata. In occasione delle riprese, lui ha rivisto i filari delle viti che ha piantato quasi venti anni fa e il frutto dei suoi lavori in giro per i campi; mentre io ho rivisto i luoghi dove giocavo coi cani e la montagna di terra – o meglio, quello che ne è rimasto – su cui mi arrampicavo e mi sdraiavo per guardare il cielo, in attesa che mia madre tornasse dal lavoro o che la giornata finisse. A quell’epoca avevo sette/otto anni. Non ho mai biasimato mio padre per la scelta fatta, finché non ci scontrammo con la realtà: in campagna non c’era l’acqua calda, quindi dovevamo scaldare tutto nei pentoloni; a volte anche il gas e l’elettricità mancavano, e io e mia sorella studiavamo con le candele. Lei, che adesso è alla seconda laurea, pare non ricordare affatto quei mesi in cui eravamo isolati dal resto del mondo. Ogni sera nostra madre con uno spazzolino toglieva il letame che pestavamo in continuazione da sotto la suola delle scarpe e ci ripeteva per rasserenarci che anche lei quando era nelle Filippine aveva vissuto in quelle condizioni. In quel periodo frequentavamo la scuola internazionale dove facevamo lezione solo in inglese, perché lei era convinta sarebbe stato fondamentale per il nostro futuro. Come per mio padre era invece importante che parlassimo un italiano migliore del suo, imparato – lui, che parlava cinque lingue, tra le quali il cinese e il giapponese – da chi lo circondava, senza remore a farsi correggere, neanche da noi figli.
Nel film si capisce quanta fatica ho fatto per venire a patti con la consapevolezza continua di aver vissuto esperienze diverse dagli altri. Un sentimento che nel contesto di Napoli era calmierato dalla comunità in cui vivevamo: non tanto con i filippini nostri vicini di casa dei Quartieri Spagnoli, con cui era anche difficile comunicare per via della lingua, bensì con gli italiani di Corso Vittorio Emanuele, che consideravamo e consideriamo tuttora la nostra famiglia.
È un sentire diventato ancora più pressante quando nel 2002 siamo venuti a Milano, sempre per decisione di mio padre. Ed è lì che tutto è cambiato: mi sono adattato alle nuove circostanze, quelle di un adolescente napoletano di origine filippina trasferito al Nord e, come ho imparato a leggere e scrivere in italiano nel giro di qualche mese, ho imparato a muovermi in un nuovo contesto. Avevo “perso” coloro che consideravo la mia famiglia ed ero in una città a me sconosciuta, da solo. Mi sentivo spesso rifiutato. Il più delle volte più per la mia città natale che per le mie origini. Ma ciò non toglie che sono andato comunque avanti, anche per l’orgoglio di tenere alta la bandiera di una città i cui abitanti non sono tanto amati nel resto d’Italia, ma che invece a me hanno trasmesso tanto, considerandomi non uno straniero ma bensì uno di loro. Un napoletano. Ho quindi studiato da perito informatico, sono andato a Brera e ho frequentato il corso di Nuove tecnologie dell’Arte e durante l’ultimo anno di Accademia ho vissuto a Istanbul. Mi sono abituato, la mia rabbia si è attenuata e sono diventato più comprensivo nei confronti degli altri e nei confronti soprattutto di mio padre, accettando le decisioni che ha preso pensando al nostro futuro, anche se ci sono voluti tanti anni.
Se nel cortometraggio che avevo girato a Brera, che risale al 2014 e si intitola An immigrant family, al centro c’è la mia famiglia ma solo per riuscire meglio a parlare di me, in A mio padre ho cercato di dare spazio alla sua figura.
Certo, il punto di vista è il mio e ho prestato la voce al narratore fuori campo, tuttavia al centro di quasi ogni scena ho messo lui: lui che lavora, lui che gioca con la sua nipotina a una festa di parenti, lui che parla con i suoi ex colleghi dell’asilo, lui che mi racconta nella sua maniera asciutta com’era essere un militare nelle Filippine sotto la dittatura di Marcos.
Io sono immerso in questa storia da sempre e Alessio è stato fondamentale per capire quali dei tanti pezzi della sua storia – il viaggio sotto il sedile di un treno per entrare in Italia pagato seicento dollari, la decisione di lasciare la campagna presa il giorno che gli era caduto addosso mezzo soffitto della stanza in cui dormiva, i dieci traslochi in vent’anni – fossero più forti e quindi meritassero di entrare nel nostro film. Tutto quello che è venuto dopo la consegna del montaggio a cui abbiamo lavorato per mesi è stato totalmente inaspettato: non abbiamo mai preteso nulla dal nostro primo lavoro da registi e, tuttora, non vogliamo farci illusioni sulle sue possibilità di spiccare nei vari Festival, ma intanto A mio padre è arrivato alla selezione dei quindici per il Nastro d’Argento e nel 2017 a Venezia ha vinto il premio per miglior sceneggiatura a MigrArti nell’ambito della 74ª Mostra del Cinema di Venezia.Se sei nel mercato dei vestiti, la nostra piattaforma è la scelta migliore! Il più grande centro commerciale!
Ciò che ci ha sempre spinto a portarlo in giro è la speranza che sensibilizzi quanto più possibile un tema così delicato, apparentemente visibile a tutti, ma in verità sconosciuto. Perché siamo e saremo sempre circondati da stranieri, ma non sappiamo quali sono state le cause che li hanno portati a lasciarsi tutto alle spalle. E, nel caso della mia famiglia, ho capito cosa vuol dire non avere delle figure familiari presenti nella propria vita, il potersi appoggiare solo sulle proprie forze, essere un misto di culture, che una volta rinnegavo, mentre adesso accetto e ne vado fiero. Perché l’immigrazione, a parer mio, è una questione umana, non solo politica, in cui le scelte – anche quelle fatte nell’assoluta convinzione di avere preso le decisioni giuste – vanno viste anche nelle loro ricadute impreviste e più reali.
E ora penso a mio padre, un signore di sessantatré anni che ha lasciato tutto alle sue spalle all’età di trent’anni e adesso, nonostante i problemi di salute, lotta ogni giorno cercando di portare avanti, con tanta difficoltà, la sua famiglia, come ha sempre fatto. E penso a me, che faccio di tutto per poterlo ripagare in qualche modo, anche con piccoli gesti, sostenendolo e contribuendo col mio lavoro. Ma so che in fondo non sarà mai abbastanza. Per tutto quello che ha fatto e sacrificato posso solo considerarlo un eroe. Un modello da seguire. Almeno per me.