Quando gli studenti di Pavia vogliono incontrarsi spesso dicono “ci vediamo in Centrale”, davanti alla sede principale dell’Università. Ed è proprio in uno dei tanti bar vicini alla via Strada Nuova 65 che incontriamo Anamaria Solcan Savu e Shaul Paolo Gordon, studenti di Medicina in inglese e membri dell’associazione Harvey MedSoc. Rumena che vive da sempre in Italia lei, israeliano di origini italiane («Milanesi!» ci tiene a dire) lui.
Romania, Israele, Turchia, Brasile, Pakistan, India, America e non solo. Nominate un Paese e probabilmente ci sarà uno studente del corso di quella nazionalità. Una particolarità tutta pavese che ha portato alla creazione tre anni fa dell’associazione. Che come proposito ha quello di colmare il gap di integrazione degli studenti stranieri.
Che cos’è MedSoc e cosa fate?
S.P.G.: MedSoc è stata fondata per creare una comunità di studenti di Medicina, in assenza di un’associazione del genere. Quello che succede quando sei uno studente straniero è che ti trasferisci in un nuovo posto, un nuovo Paese e non c’è un sistema di supporto. C’è un welcome office in università e strutture che ti aiutano a trovare un appartamento. Questo è davvero fantastico, ma non è abbastanza. L’idea è quella di creare una comunità più ampia, per incontrare ragazzi degli altri anni e migliorare il nostro corso. Il primo proposito è incontrare nuove persone e andare fuori a bere, no? Però la conseguenza di questi incontri è utile da un punto di vista professionale. La fortuna di studiare in un corso internazionale è quello di incontrare studenti da tutto il mondo. Anche solo da un punto di vista pratico può servire in futuro.
Non c’è il rischio però di ghettizzazione degli studenti internazionali? Ci sono anche studenti italiani con voi?
S.P.G.: Uno dei nostri obiettivi è quello dell’integrazione. Gli eventi del corso Harvey sono aperti a tutti. Certo, la nostra audience è quella degli studenti internazionali, infatti comunichiamo soprattutto in inglese. Ma ovviamente tutti sono benvenuti! Stiamo cercando anche di riempire il gap linguistico: abbiamo “Parli italiano?”, per persone che vogliono sedersi al bar a parlare italiano. Ci sono molti eventi pubblicizzati come in inglese ma che poi si tengono in italiano, quindi promuoviamo anche conferenze in inglese. Non solo cerchiamo di spingere gli studenti stranieri a imparare l’italiano ma anche di includerli nelle attività extracurriculari che ad oggi, proprio per la lingua, gli vengono precluse.
Molti ragazzi che studiano in corsi in inglese lo fanno per andare via dall’Italia. Gli stranieri che studiano qui invece vogliono rimanere?
A.S.S.: Alcuni di loro vogliono tornare, Shaul ad esempio no. È relativo, studiare in inglese apre a occasioni che possono portarti ovunque. Io per esempio non ho intenzione di tornare in Romania né di rimanere qui. È molto più probabile però che chi viene dall’estero rimanga in Italia.
S.P.G.: Sì, non so se rimarrò qui ma so di sicuro che non voglio tornare in Israele. Penso che in generale sono innamorato dell’Italia. Ho anche una famiglia a Milano, quindi è anche una questione personale. Immagino che anche se andrò da qualche altra parte per la specializzazione prima o poi tornerò qui.
A.S.S.: È un problema che c’è anche in Romania, tantissimi studenti arrivano per studiare e poi se ne vanno. Non so come sia nelle altre facoltà ma nel nostro corso il fatto che ci siano così tante persone straniere di così tanti posti è una ricchezza immensa. Ho imparato tantissime cose, anche grazie al fatto che abbiamo tutti età diverse, dai diciannovenni ai trentenni, perché di solito gli israeliani sono molto più grandi. Dal punto di vista personale e soprattutto medico lasciano davvero molto. Ed è grazie anche ai professori, quelli che ci tengono.
Anamaria, da seconda generazione per te com’è? C’è un cambio rispetto dall’essere una dei pochi stranieri in classe al sentirsi una dei tanti?
A.S.S.: In realtà per la maggior parte delle volte si dimenticano che sono rumena, anche per il fatto che sono qui dalla seconda elementare e l’italiano lo parlo benissimo. Il primo anno di università l’ho fatto a Biologia e nessuno si è chiesto da dove venissi. La cosa strana per me è stata che se non mi sono sentita per niente straniera a Biologia, a Medicina sì. I primi giorni tutti chiedono “da dove vieni” e io non sapevo che cosa rispondere. Adesso sono riconosciuta come rumena da tutti anche se mi dicono che sono un po’ italiana. Prima ero sempre stata solo italiana. Non mi ero mai posta il dubbio e non ho mai fatto richiesta per la doppia cittadinanza. In Europa non ne abbiamo bisogno. Riconoscermi però di una nazionalità di cui non ho esperienza è molto strano. Mi sento europea.
Tornando a MedSoc, avete detto prima che uno degli obiettivi è quello di migliorare il vostro corso di laurea e in generale la situazione degli studenti internazionali. Come fate?
S.P.G.: Per esempio, due anni fa c’è stato un ragazzo che si è suicidato. Ci siamo accorti che non esiste un supporto psicologico per gli studenti internazionali. L’unico sportello esistente era in italiano. Grazie alla collaborazione con il nostro professore di Psichiatria siamo riusciti ad ottenerne uno in inglese. Oggi la facoltà se n’è preso pieno carico. Quindi, questi sono spazi bianchi che l’università ha e che noi segnaliamo. La facoltà per fortuna recepisce bene le nuove idee che gli sottoponiamo, anche dal punto di vista accademico. Non è perfetta ma sta senza dubbio migliorando.
A.S.S.: Penso che uno dei motivi per cui l’Università ci sostiene è perché diamo prestigio. Siamo il corso migliore in Italia e fare di più vuol dire attrarre di più. D’altro canto è importante per noi perché siamo una particolarità, sono sei anni in un corso diverso dagli altri. Si crea un rapporto che va al di là della nazionalità, siamo tutti studenti di Medicina e cerchiamo di aiutarci l’un l’altro come possiamo.
S.P.G.: Vorrei dire poi che questo posto permette di fuggire dalla propria realtà geopolitica. Un ebreo, un tedesco, un americano e un iraniano entrano in un bar: non è una barzelletta ma l’inizio di praticamente tutte le mie serate. Il mio migliore amico è iraniano, io sono israeliano. Lui non potrà mai visitare il mio Paese e io non potrò mai visitare il suo. Ma ci siamo incontrati qui, dove non importa da dove veniamo.